Quelle toghe protagoniste ideologiche e poco umili

Quelle toghe protagoniste ideologiche e poco umili

Cinque anni fa nel nome di Rosario Livatino un gruppo di magistrati, avvocati e docenti di materie giuridiche decide di iniziare un'avventura: quella, seguendo l'esempio del giovane giudice ucciso nel 1990 sulla strada per Agrigento, di lavorare per una giurisdizione che non inventi la norma, ma la applichi, che rispetti gli altri poteri dello Stato, che cerchi nella norma il fondamento antropologico che le conferisca senso. Ha deciso, cioè, di dare seguito a riflessioni come quelle che Livatino svolse in occasione di una sua conferenza, nel 1984, quando descrisse in questi termini lo statuto morale di chi è chiamato ad amministrare la giustizia: «Si è affermato, a partire della metà degli anni '60, che il magistrato possa e debba interpretare la norma scegliendo il significato che, a suo giudizio, meglio asseconda le trasformazioni della società. In realtà, il compito del magistrato è e rimane quello di applicare le leggi che la società si dà attraverso le proprie istituzioni. Il giudice non può e non deve essere un protagonista occulto dei cambiamenti sociali e politici».

Ieri Papa Francesco, ricevendo in udienza nella Sala Clementina gli iscritti al Centro studi, che nel pomeriggio si poi sono ritrovati per il loro convegno nazionale, dedicato quest'anno alla crisi della Magistratura, non ha usato giri di parole per richiamare la sorprendente «attualità di Rosario Livatino () perché coglie i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia: la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti nuovi diritti, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo». E non ha mancato di sottolineare che «Il tema che avete scelto per il convegno che terrete oggi si inserisce in questo solco, e chiama in causa una crisi del potere giudiziario che non è superficiale, e che ha radici profonde», poiché «la virtù naturale della giustizia esige di essere esercitata con sapienza e con umiltà».

I discorsi del Papa hanno un singolare destino: di regola non li si legge, spesso li si utilizza estrapolando quel che serve di più, disancorandolo dal contesto. Quel che ieri Francesco ha detto nel modo più chiaro andrebbe letto e riletto, qualunque sia la confessione religiosa di riferimento, da chi è a vario titolo impegnato nella giurisdizione: perché, segnalando l'esempio del giudice che nessuno conosceva prima che fosse ucciso - ma che era ben noto ai mafiosi di quella zona, i cui patrimoni erano colpiti con provvedimenti professionalmente inattaccabili -, ha evocato un profilo di magistrato che non si sostituisce al legislatore o al governo, che non crea orientamenti sulla base di presupposti ideologici, che ha l'umiltà di aderire al dato reale che ha di fronte, senza pretendere di cambiarlo. Un tipo di giudice così non è tramontato: richiede solo impegno e coraggio. Parola di Pontefice!

vicepresidente

del Centro studi Livatino

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