Quell'inchiesta che sfiora Zingaretti

Quattro suoi collaboratori indagati: firme false per giustificare le assenze del governatore

Quell'inchiesta che sfiora Zingaretti
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Poteva non sapere? La domanda, che rischia di pesare assai sulla campagna elettorale europea di Nicola Zingaretti, capolista in pectore al Centro per il Pd, è un classico topos nella giurisprudenza delle inchieste a sfondo politico.

L'ex presidente della Regione Lazio ed ex segretario del Pd, oggi parlamentare, non è indagato nè rinviato a giudizio. Non risulta sia stato neppure sentito dai pm. L'inchiesta per falso della procura di Roma, però, lo tocca da vicino: per quattro suoi stretti collaboratori in Regione, incluso il capo della segreteria Stefano Del Giudice e il vice-capo di gabinetto Andrea Cocco, è stato chiesto il rinvio a giudizio. La vicenda, non epocale, è presto detta: Zingaretti, rieletto governatore nel marzo 2018, un anno dopo venne incoronato dalle primarie come segretario del Pd, per chiudere la stagione renziana. Durante il doppio incarico, contestano i magistrati sulla base di un esposto presentato dalle opposizioni in Regione (paradossalmente proprio da quei Cinque Stelle che poi entrarono nella sua maggioranza), la sua assenza dalle sedute del Consiglio regionale fu «giustificata» come missione per «impegni istituzionali». Trentotto volte, secondo l'accusa. E in tre di quei 38 casi l'impegno istituzionale sarebbe stato in realtà (anche se il confine non è così facile da stabilire) un impegno di partito. Una volta di trattava di campagna elettorale in Toscana, in quel di Prato. Un'altra volta si trattava di manifestazioni a sostegno di un candidato a Napoli e Casal di Principe. Un'altra ancora di una tappa nella famosa Bibbiano, sede dello «scandalo» (poi finito in fuffa, ma fortemente alimentato da destra e M5s) che coinvolse il sindaco dem della cittadina, successivamente assolto da ogni addebito.

Ogni volta, lo staff del Presidente della Regione presentava alla presidenza del Consiglio regionale una «giustificazione», spiegando che Zingaretti aveva altri impegni di carattere istituzionale. Con due conseguenze: la prima, fondamentale dal punto di vista politico, era quella di assicurare comunque il numero legale della seduta in questione, perchè l'assenza in quel caso non viene conteggiata. E Zingaretti, che pure aveva incassato una larga maggioranza sul proprio nome alle elezioni regionali, non aveva però ottenuto la maggioranza nel nuovo Consiglio, ed era appeso al voto di un paio di transfughi del centrodestra: 27 a 25. Ogni assenza, inclusa la sua, contava. La seconda conseguenza, più terra terra, è che all'assente giustificato viene comunque versato il gettone di presenza (circa 200 euro lordi).

Secondo l'accusa, a quanto pare, i quattro dello staff facevano di testa loro, notificando alla presidenza del Consiglio l'impegno istituzionale senza essere sollecitati dal diretto interessato. Tanto che, appunto, Zingaretti non è stato neppure ascoltato, e la richiesta di rinvio a giudizio coinvolge solo lo staff.

Ma la difesa degli indagati non ha alcuna intenzione di lasciar correre, e denuncia la «stranezza» dell'assunto dei pm: «É possibile che, per 38 volte, il presidente Zingaretti sia stato dichiarato in missione a sua insaputa? Chi, se non lui, decideva di comunicare allo staff che il giorno dopo il presidente avrebbe avuto un impegno istituzionale?», è la domanda chiave su cui gli avvocati insisteranno, nell'udienza fissata per gennaio. Domanda che, per Nicola Zingaretti, può complicare assai la campagna elettorale del 2024.

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