A furia di cavalcare cavalli imbizzarriti, Marco Damilano ne è stato travolto. L'ospitata di lunedì sera del filosofo francese Bernard-Henri Lévy potrà costare cara al giornalista planato in Rai da La7 per realizzare la striscia quotidiana su Raitre Il cavallo e la torre. Una raffica di reazioni indignate e polemiche di tutto lo schieramento di centro destra, del sindacato giornalisti Rai e della Vigilanza parlamentare per le parole durissime usate dall'intellettuale «liberale» contro Meloni, Salvini e Berlusconi. Una rivolta che arriva a chiedere da parte di molti esponenti leghisti le dimissioni dell'amministratore delegato Rai Carlo Fuortes. E, stavolta, da questo guaio non ne uscirà facilmente.
In sostanza Lévy ha sostenuto che in Italia sarebbe in arrivo una ventata di fascismo che va fermato, che il suffragio può non essere rispettato se il voto è sbagliato, che il leader della Lega è «patetico e ridicolo», un «traditore della patria» e che è stata una «ignominia» il suo viaggio in Russia. Damilano ha cercato blandamente di chiarire che queste sono idee del filosofo d'Oltralpe e di dissentire dalle sue affermazioni sul rispetto del voto popolare, non abbastanza però per fermare la valanga di contestazioni. Soprattutto perché siamo a pochi giorni dal voto e nella trasmissione non c'era possibilità (non è previsto) di contraddittorio. E, per rimediare, ieri sera, ha invitato Giovanni Orsina, politologo, docente alla Luiss, per fargli dire che, naturalmente, non c'è pericolo di fascismo in Italia e che è anti producente gridare «al lupo al lupo». Ma non gli servirà per far dimenticare Lévy.
«L'Italia merita più di Salvini, Meloni o Berlusconi - aveva detto nello specifico il filosofo francese - . C'è una tentazione fascista in Europa e in particolare nei prossimi giorni in Italia. Quando gli elettori portano al potere Mussolini, Hitler o Putin la loro scelta non è rispettabile. Un fascista che arriva alle urne non si converte automaticamente in democratico». Alla domanda sulle responsabilità dell'élite europea e della sinistra per «aver lasciato dilagare il populismo nelle periferie», il filosofo aveva replicato: «Ma smettiamola. È colpa dei tecnici europei se Salvini va segretamente a Mosca e negozia il futuro dell'Italia nel retro bottega con inviati dell'ambasciata russa?».
La reazione della Meloni è lapidaria: «Il servizio pubblico italiano ospita (o paga?) uno scrittore francese noto per aver difeso un terrorista come Cesare Battisti per paragonare l'Italia ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante». Tradotto: fa il gioco dei suoi avversari portandogli voti.
Salvini ne approfitta per ribadire che bisogna cancellare il canone Rai, come già fatto a Pontida domenica: «È normale che gli italiani paghino uno mille euro a puntata (per dieci minuti) per fare un comizio contro la Lega?».
Il presidente della Commissione vigilanza Rai, Alberto Barachini, fa notare che «quanto accaduto nella trasmissione rappresenta una palese, plurima violazione della par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio che devono orientare il servizio pubblico». Inoltre «il conduttore non solo è stato incapace di arginare la violenza verbale del suo ospite, ma ha contribuito alla distorsione con domande tendenziose». Anche l'Usigrai, il sindaco aziendale dei giornalisti, ha reagito con fermezza: «E pensare - scrive - che Damilano, scelto dall'esterno, era stato presentato da Fuortes come il giornalista più adeguato per informare, intrattenere e fornire strumenti conoscitivi restando fedeli al pluralismo...».
Insomma, l'ex direttore dell'Espresso (contrattualizzato in Rai poco dopo essere uscito dal settimanale) è rimasto vittima di se stesso e delle sue ideologie e di una pressione fortissima dal primo annuncio dello sbarco nella tv di Stato. Ora si vedrà come questo passo falso segnerà il suo futuro in azienda. E, soprattutto, come ne uscirà l'ad Carlo Fuortes il cui destino, in caso di vittoria del centrodestra, è segnato. Al galoppo fuori dalla Rai.
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