"Il re non salva, va ucciso". Dugin abbandona Putin e la smentita non convince

L’ideologo è depresso e porta rancore dopo la morte della figlia: su Telegram evoca la fine dello Zar. E il dissenso interno continua ad aumentare.

"Il re non salva, va ucciso". Dugin abbandona Putin e la smentita non convince

«Se il sovrano si circonda di mer... o sputa sulla giustizia sociale non è piacevole, ma è accettabile se il sovrano ci salva. Altrimenti gli spetta il destino del Re delle piogge». Alexander Dugin - il controverso pensatore russo che ad agosto perse la figlia Daria in un attentato attribuito all'intelligence ucraina - è veramente l'autore del commento apparso sul suo account Telegram e subito rimosso? Ma soprattutto è veramente Vladimir Putin, come interpretano i più, a meritarsi la fine del «Re delle piogge», il sovrano protagonista di un racconto di fantasia sventrato dal suo popolo per non esser riuscito a garantire l'acqua dopo una lunga siccità?

Partiamo dall'ambientazione letteraria. Il post e la storia del Re della pioggia s'ispirano a Il ramo d'oro uno studio su magia e religione scritto nel 1890 dall'antropologo James Frazer. Dunque la citazione appartiene a buon titolo all'armamentario ideologico di Dugin. Ma più importante è l'ambientazione politica. Secondo il Daily Mirror il post fa capolino su Telegram proprio mentre in Russia si diffonde la notizia del ritiro da Kherson. E proprio contro quel ritiro - descritto come inevitabile dal generale Sergei Surovikin, comandante delle operazioni in Ucraina - s'indirizza la rabbia. L'obiettivo non è però il generale. Nel commento Dugin sottolinea di non avere «niente contro Surovikin» e precisa che «il colpo non è diretto a lui», ma «è un colpo per voi-sapete-chi». Dunque vi sarebbero pochi dubbi. Il «sovrano» sarebbe il presidente colpevole di non saper garantire la vittoria in Ucraina e per questo meritevole di venir deposto e ucciso. Una riedizione della tesi, ispirate ai destini dei Romanov, secondo cui in Russia chi perde le guerre perde anche potere e vita. A sera Dugin prova a smentire: «L'Occidente ha iniziato a far credere che io e i patrioti russi ci siamo rivoltati contro Putin dopo la resa di Kherson, chiedendo presumibilmente le sue dimissioni. Questo non proviene da nessuna parte e si basano su un mio presunto messaggio cancellato».

Ma l'ambientazione, per esser accurata, deve tener conto di altri particolari. Dugin, contrariamente a quanto sostenuto in Europa e negli Usa, non è l'ideologo di Vladimir Putin. Le sue tesi, seguite inizialmente con interesse dal Cremlino, non gli hanno impedito di finire al margine del mondo accademico non appena il Cremlino iniziò a considerarle politicamente esagerate. A questo s'aggiunge oggi la spossatezza psicologica di un uomo che ha visto morire la figlia al posto suo. Varie fonti de il Giornale in contatto con il pensatore riferiscono di un Dugin sempre più isolato e profondamente depresso. In questa condizione il suo pensiero su Putin risente sicuramente delle non facili vicende personali. Detto ciò il presidente non attraversa certo un buon momento. Sia i cittadini sia i vertici della sua piramide di potere l'hanno sempre considerato una sorta di grande risolutore dotato di un'innata capacità di risolvere i problemi della nazione e del popolo russo. Una fama e un prestigio costruiti nei primi anni di potere quando risollevò la Russia dagli anni bui dell'era Eltsin, mise in riga gli oligarchi, sconfisse i ceceni e regalò benessere al Paese. Le débâcle di questi otto mesi di guerra, da Kiev a Karkhiv fino a Kherson, stanno cambiando le cose.

Il consenso resta inalterato a livello popolare se si escludono gli ambienti liberal di Mosca e Pietroburgo, ma incomincia ad affievolirsi all'interno di alcune cerchie di potere convinte di poter conquistare spazi di autonomia in vista di una possibile successione. L'esempio più evidente è quello del cosidetto partito della guerra rappresentato dall'ex presidente Dmitrij Medvedev, dal ceceno Ramzan Kadyrov e da Evgenij Prigoin, indiscusso demiurgo della Wagner. Tutti e tre, pur non avendo la statura di possibili successori, puntano a guadagnar consensi soffiando sul fuoco della guerra senza limiti ed evocando, come fa spesso Medvedev, la potenza distruttiva degli arsenali nucleari.

Che però restano, per ora, nelle mani dei militari e di quei servizi segreti mai sfuggiti allo stretto controllo di Vladimir Putin e di Nikolaj Patrushev, il potente capo del Consiglio di Sicurezza, considerato non solo il confidente e il braccio destro del presidente, ma anche il suo unico possibile successore.

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