Recuperare o rifare? Il dilemma della ricostruzione

Ingegneri, tecnici e soprintendenze gestiscono l'emergenza. Ma i rimedi non sono scienza esatta

Luca Nannipieri

Come si ricostruisce il patrimonio storico artistico colpito da un terremoto? Non esiste una scienza esatta, né una procedura di recupero univoca, condivisa da tutti, approvata dal Codice dei beni culturali. Ogni volta che un sisma demolisce o traumatizza capolavori d'arte, chiese, abbazie, cinte murarie, affreschi, dopo l'immediata e condivisa gara a dirsi costernati, iniziano i veri problemi. L'analisi dei danni è tecnicamente la fase più lunga, ma anche la più «facile», perché la radiografia delle ferite sul corpo del malato è in massima parte un procedimento scientifico, oggettivo, che ha una prassi consolidata: gli ingegneri e i vigili del fuoco verificano la staticità delle strutture ancora in piedi, per scovare le micro e macro fessurazioni interne; dopo queste verifiche si decide cosa deve essere puntellato e cosa invece demolito per ragioni di pubblica sicurezza; gli oggetti mobili di pregio artistico in chiese, palazzi storici, tabernacoli, vengono asportati e depositati nei magazzini delle soprintendenze; poi cominciano da parte dei soprintendenti i vari rilievi specifici sui singoli monumenti, rilievi fotogrammetrici, con laser scanner, con grafici, con foto-piani, con documentazione illustrativa, per arrivare a ricostruire virtualmente, tridimensionalmente, il monumento colpito o per lavorare al progetto di ricomposizione degli oggetti colpiti.

Ma qui arriva il problema: come si ricostruisce? Se si sbriciola un affresco quattrocentesco di una cupola, cosa si fa? Si rifà un finto affresco quattrocentesco? Si ricompongono i frammenti visibili e si ricollocano sulla cupola facendo vedere quanto il terremoto ha distrutto? Oppure, consapevoli che la storia si muove per traumi (terremoti, guerre, devastazioni), si ridipinge la cupola con uno stile volutamente, orgogliosamente moderno e nuovo? I centri storici colpiti si chiudono in toto (come a L'Aquila) o si realizzano interventi parziali per non far sentire estranei i cittadini alla ricostruzione? E qualora i danni siano irreversibili, come a Gibellina dopo il terremoto del 1968, si abbandonano questi borghi costruendo nuove strutture abitative nelle vicinanze e per combattere la morte e la devastazione si chiamano artisti internazionali a rendere vivi questi luoghi con le loro opere? Oppure si avvia una lenta, parrocchiale condivisione al recupero dei monumenti feriti, come è accaduto a Mirandola in Emilia dopo il terremoto del 2012?

Non c'è precisione di risposta e forse, per fortuna, non c'è. La ricostruzione minuziosa di un luogo d'arte (com'era e dov'era) può apparire un artificioso inganno della storia. Al tempo stesso la ricostruzione totalmente moderna di ciò che è stato distrutto o leso può apparire un duro e violento contrasto con il passato.

Ecco perché la mancanza di una scienza esatta, di una procedura incontestabile, è dunque un dato positivo, di libertà: è bene infatti che a decidere come ricostruire le strade monumentali, i palazzi storici, le chiese, non siano chiamati solo gli storici dell'arte e i funzionari delle soprintendenze, ma anche i cittadini stessi, che sono per Costituzione i primi e unici proprietari del patrimonio culturale.

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