Si, no, forse. La Corte Costituzionale (suo malgrado) si trova al centro di un groviglio. Da un lato ci sono i quattro scranni lasciati colpevolmente vacanti dal Parlamento (uno da più di un anno, altri tre da un mesetto), dall'altro alla stessa Corte spetta decidere sull'ammissibilità del referendum sull'Autonomia differenziata e soprattutto sul rebus legato al terzo mandato dei governatori. Sarà il premier Giorgia Meloni oggi al Consiglio dei ministri ad annunciare che l'esecutivo impugnerà la legge della Regione Campania che dà il via libera alla ricandidatura del governatore uscente Vincenzo De Luca. Una norma furbetta, che con un combinato disposto di soglia minima, eleggibilità dei sindaci e premio di maggioranza monstre sembra essere cucita su misura per l'ex sindaco di Salerno. Ma sulla carta, norma o non norma, l'esponente Pd che neanche il suo partito vuole è incandidabile più che ineleggibile, perché l'incompatibilità sul terzo mandato è scritta nella legge 156 del 2004, autoapplicativa anche senza una legge regionale. Il comma «f» del'articolo due sancisce la «non immediata rieleggibilità» del governatore dopo il secondo mandato. In passato altre Regioni hanno provato a disinnescare la dipendenza della legge elettorale regionale da questo dispositivo normativo, con alterne fortune. Per esempio con la sentenza numero 107 del 2017 che riguardava proprio la Campania (relatore l'ex presidente Augusto Barbera, a riposo dal 21 dicembre scorso) la Corte costituzionale ha chiarito che «una norma regionale elusiva di un principio fondamentale statale rischia di essere dichiarata incostituzionale».
Ecco perché il governo impugnerà la norma e perché probabilmente la Consulta darà torto a De Luca, con buona pace del governatore leghista del Veneto Luca Zaia, spettatore interessato. I tempi si annunciano comunque lunghi e si rischia che il verdetto arrivi dopo le Regionali. Fonti vicine al ministro Roberto Calderoli raccontano di una possibile «soluzione aperta» che possa scongiurare strappi e favorire una scelta condivisa. Vedremo oggi.
Prima c'è da trovare l'accordo tra i partiti sulla rosa per sostituire lo stesso Barbera, Franco Modugno, Giulio Prosperetti e Silvana Sciarra. Al Parlamento - la seduta comune è attesa la prossima settimana - serve il quorum dei tre quinti che il centrodestra da solo non garantisce. Dopo il pressing del Quirinale l'intesa si sarebbe chiusa sul consigliere giuridico di Palazzo Chigi Francesco Saverio Marini, padre del premierato e figlio d'arte (suo padre Annibale indicato da An guidò la Consulta a fine anni Novanta). Forza Italia punta su Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, sebbene le quotazioni dell'ex Csm Pierantonio Zanettin siano ancora alte, visto che Sisto ha il «difetto» di lasciare vacante un posto di sottogoverno e un collegio elettorale in Puglia. Il tecnico dovrebbe essere la giurista cattolica Valeria Mastroiacovo, assistente di studio presso la Corte costituzionale di Luca Antonini (giudice in quota Carroccio). Nel Pd sembra averla spuntata Massimo Luciani, emerito alla Sapienza e accademico dei Lincei, preferito al consigliere giuridico di Elly Schlein Andrea Pertici, nemico giurato dell'autonomia differenziata (rappresenta la Regione Toscana), su cui la Consulta dovrebbe pronunciarsi a breve.
Piccola curiosità tra corsi e ricorsi storici.
Davanti alla Consulta presieduta da Marini padre, il candidato Pd Luciani difese le prerogative parlamentari di Umberto Bossi, condannato nel 2001 per aver detto «il tricolore lo uso per pulirmi il culo». La Consulta gli diede torto ma ce n'è abbastanza perché la Lega lo voti col sorriso sulle labbra.
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