Le stringenti regole di classificazione europea stigmatizzate al momento nella bozza della Commissione Green Deal potrebbero lasciare fuori l'Italia dalla lista dei benefici finanziari: un impegno di spesa attorno ai 10 miliardi che dovrebbe arrivare dall'Ue ma che invece resterebbe nelle casse di Bruxelles escludendo il nostro Paese dalla possibilità di realizzare impianti nuovi per 20 mila megawatt. Già perché, da quanto si legge sul Sole 24 Ore, nessuno dei progetti made in Italy, almeno in fatto di sostenibilità, sembra soddisfare i vincoli della cosiddetta tassonomia come viene esplicitato in seguito a un attento controllo tra aziende del segmento energetico ed esperti del settore. Nella Penisola sono in corsa attualmente 48 investimenti per la transizione delle centrali da carbone a gas metano: i più imponenti sono a Brindisi Sud Cerano, La Spezia, Monfalcone per A2A e Civitavecchia per Enel. Analizzando i dettati di Bruxelles sembrerebbe che dal programma in via di definizione si favoriscano quei progetti, e quindi quei Paesi, che a oggi risultano molto più esposti di noi verso il carbone: Polonia, Repubblica ceca o Germania. Al contempo viene facilitato anche il progetto francese per mantenere investimenti consistenti sul nucleare e incrementare quelli sul metano. Con questi presupposti anche la Francia sarebbe di molto davanti a noi in fatto di greenbond e incentivi per nuova sostenibilità. L'Italia nell'elenco dei percettori andrebbe a intascare al massimo qualche progetto verde per impianti di peso marginale oggi, comunque, non ancora previsti.
Ecco quanto pesano vincoli e limiti. La bozza europea stabilisce che per rispondere ai requisiti del finanziamento il progetto di centrale elettrica a metano per sostituire una centrale elettrica a carbone, deve essere in grado di emettere meno di 270 grammi di anidride carbonica per ogni chilowattora prodotto (oppure emettere 550 chili di CO2 l'anno per ogni chilowatt istallato). A partire dal 2030 le emissioni dovranno scendere sotto i 100 grammi per chilowattora prodotto: un obiettivo utopistico anche utilizzando le turbine di ultimissima generazione. A questo punto potrebbe tornare in ballo qualche impianto di cogenerazione, che produrrebbe sia energia meccanica che calore, o altre installazioni basate sull'utilizzo integrato di idrogeno blu come quello di Marghera Fusina. Nel caso specifico le emissioni potrebbero scendere grazie allo stoccaggio dell'anidride carbonica, o il ricorso alla produzione di biometano. Ultima possibilità per accaparrarci risorse da impegnare nella riconversione energetica è quella di mettere in piedi piccole centrali a gas ad alte emissioni, coadiuvate da ulteriori impianti ibridi rinnovabili da utilizzare in alternanza. Tutte realtà papabili sì, ma che ancora non sono state messe definitivamente su carta né stabiliti i concreti tempi di realizzo. Tuttavia di tavoli tecnici in piedi, nelle diverse realtà di efficientamento energivoro, ce ne sono eccome.
Tra manager ed economisti di settore la traccia da percorrere è chiara: ricalca una sorta di autarchia finanziaria agevolata e riferita al mercato interno così da scavalcare quei sistemi che rispetto all'Italia si sono mossi tardi e con progetti ancora fumosi, ma che verranno coadiuvati dalle risorse comunitarie. Peccato che, appena un anno fa, il piano Ue avrebbe dovuto includere un meccanismo di transizione verso energie più pulite omogeneo e senza distinzioni.
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