Renzi applica l'articolo 18 per liberarsi dei dissidenti

Davanti allo stato maggiore del Pd apre sul reintegro e strappa 130 sì. Il diktat ai ribelli: "In Parlamento votiamo uniti"

Renzi applica l'articolo 18 per liberarsi dei dissidenti

Nei numeri, la direzione Pd finisce come si sapeva che sarebbe finita: con la vittoria di Matteo Renzi e la frammentazione della minoranza.

Nei toni e anche nei contenuti, però, ieri il punto di non ritorno del dibattito interno è parso raggiunto, e in alcuni momenti superato a sentire D'Alema e Bersani, Fassina e Civati. Renzi, per una volta, nelle conclusioni replica in modo soft agli attacchi, come se per lui la battaglia fosse già vinta e archiviata: stuzzica D'Alema che le riforme «non le fece», scherza sul «metodo Boffo» di cui lo accusa Bersani: «Io al massimo uso il metodo buffo». E attacca il sindacato, che «ha una responsabilità drammatica perché rappresenta solo una parte dei lavoratori», prendendosi l'applauso.

Il dibattito di merito sull'articolo 18 c'entra poco o nulla, se non a livello puramente simbolico. «D'Alema dice che l'articolo 18 non esiste più dalla riforma Fornero del 2012. E allora perché scatenate questa guerra nucleare per difenderlo?», si è chiesto dal podio il renziano Paolo Gentiloni. In ballo c'è la convivenza tra quella che Renzi ha bollato come «vecchia guardia» ex Pci e un premier e - soprattutto - segretario vissuto, dagli azionisti della ditta, come un usurpatore che vuol strappare la sinistra alle sue «radici», sempre evocate da Bersani.

La battaglia sull'articolo 18 è strumentale anche a questo: «Cambiare l'Italia, come ci hanno chiesto gli elettori», dice Renzi, e cambiare anche il Pd. Le carte in tavola le mette subito, facendo «due premesse di metodo»: primo, «non si fanno mediazioni a tutti i costi». Secondo, «c'è il dovere di rispettare i nostri elettori, perché non siamo qui a fare il club dei filosofi. Si discute, ci si divide, ma quando alla fine si è deciso si va tutti insieme: questa è la definizione che io do della parola ditta». Insomma, la minoranza si levi dalla testa di poter annacquare di compromesso in compromesso la linea del segretario. E chi pensa di trasferire la fronda, dopo che la direzione ha deliberato, nelle Aule parlamentari se ne assumerà la responsabilità. Perché, come lo stesso premier ha ricordato pochi giorni fa, se mancassero i voti del Pd e quelli del centrodestra si rivelassero determinanti nell'iter del Jobs Act, si creerebbe «un problema politico». E Renzi è pronto a prenderne atto, anche chiedendo una verifica parlamentare della sua maggioranza. «Non mi preoccupano le trame degli altri», dice riferendosi ai frenetici boatos su governi tecnici e simili, «è naturale che chi teme di vedersi spodestato voglia recuperare un ruolo: è un derby tra poteri democratici e poteri aristocratici». Ma, è l'avvertimento sottinteso, quelle «trame» non possono trovare sponda nel Pd, perché il 40% degli elettori ha detto chiaro con chi sta.

Renzi rivendica il suo Jobs Act come «una riforma di sinistra», ricordando che «il lavoro non si crea difendendo regole di 44 anni fa». E spiega: «Quello che vi sto proponendo è di cambiare. Questa riforma è di sinistra, se la sinistra serve a difendere i lavoratori e non i totem. Se serve a difendere il futuro, e non il passato». Poi il premier offre (come gli ha consigliato di fare anche Napolitano) una sorta di contentino, diretto a quella parte della minoranza - da Orfini a Speranza, da Martina ai bersaniani e dalemiani della segreteria - che gliela chiedeva disperatamente per poter sostenere la linea del segretario senza rompere clamorosamente con la «vecchia guardia»: «Siamo pronti a lasciare le tutele dell'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori e per motivi disciplinari».

E «sfida» i sindacati: «Sono pronto a riaprire la sala verde di Palazzo Chigi (quella dei tavoli della concertazione, ndr )», ma detta un ordine del giorno bello pesante per i capi confederali: legge sulla rappresentanza, contrattazione aziendale, salario minimo.

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