Renzi e Calenda, uniti ma distanti. I "segnali" che lo dimostrano

L'accordo elettorale tra i due leader del terzo polo regge, ma la distanza politica è sempre più evidente

Renzi e Calenda, uniti ma distanti. I "segnali" che lo dimostrano

Da giorni si rincorrono le voci di una separazione all’interno del terzo polo tra Renzi e Calenda. Separazione prontamente smentita da entrambi: "Il progetto per la federazione va avanti”". In realtà, nella certezza che le loro dichiarazioni per convenienza elettorale corrispondano a verità, ciò che resta evidente è la distanza politica tra Renzi e Calenda.

Già in campagna elettorale era balzata agli occhi dei più attenti la differenza tra i due leader su alcuni temi cruciali. Primo tra tutti lo scostamento di bilancio. Se Renzi continuava a dirsi contrario all’aumento di debito pubblico, come Draghi e Meloni, Calenda invece è stato il primo proporlo per abbassare le bollette. Della stessa entità la differenza sul reddito di cittadinanza. Renzi aveva promesso di abolirlo, mentre Calenda di rivederlo ricorrendo alle agenzie private (dopo che il governo ha implementato quelle pubbliche di duemila unità).

Diversa anche la posizione (e il linguaggio) sull’immigrazione: Calenda propone di chiudere le frontiere, Renzi apre alle agenzie umanitarie e all’accoglienza.

E pure sulla formazione delle liste il patto era chiaro: Italia Viva non mette becco nelle liste di Azione e viceversa. Da qui ad esempio è nata la rinuncia di Renzi al posto di capolista in Puglia e alla concentrazione della campagna del Terzo polo in questa regione, dopo l’accordo di Calenda con gli uomini di Emiliano, mai visto di buon grado da Renzi. Tant’è che la tappa a Bari fissata per non scontentare Teresa Bellanova, è stata l’unica non trasmessa sui social. Ma durante l'evento dal palco Renzi ha detto che si sarebbero affrontati dopo la campagna elettorale gli errori commessi “senza nascondersi dietro un dito”.

Ma la divisione è cresciuta dopo le elezioni. E ovviamente il primo a scatenarla è stato Calenda. il caso più grave è relativo alla lettera mandata dal leader di Azione a Repubblica in cui faceva appello, ancora una volta, ad un'alleanza col Pd chiedendo ai dem di scegliere tra “progressisti e populisti” e definendosi quindi progresista. Cosa che Renzi non è mai stato, e mai sarà. Riformista è tutta un’altra cosa, diverso da progressista quanto questo da populista. L’appello di Calenda ovviamente non è stato condiviso da Renzi, che invece la partita con il suo ex partito l’ha chiusa da tempo. E se Calenda punta ad un’alleanza col Pd, cercata sino a ieri di fronte all’ennesima porta in faccia, Renzi invece punta ad accogliere i fuoriusciti che certamente dopo il congresso arriveranno. Non a caso se Renzi continua a ripetere (anche rispetto all'esclusione dalle vicepresidenze) che Letta è il miglior alleato di meloni, Calenda si limita a dire che è alleato con i 5 stelle.

Se però i due sono stati sempre d’accordo sulla divisione delle postazioni e dei ruoli, non mostrando crepe, la distanza politica non si può nascondere per due, come loro, che della linea programmatica ne fanno sostanza politica. Ed è emersa con l’elezione dei presidenti delle Camere.

Dal primo momento è stata evidente la diversa strategia, anche nella narrazione, tra Italia Viva e Azione. Se Calenda ha negato qualunque tipo di appoggio al centrodestra, Renzi, se pur ha dichiarato di non aver votato La Russa, sicuramente ha giocato le sue carte, i suoi numeri, e i suoi uomini, diversamente. E in autonomia.

Anche sull'ipotesi della candidatura di Zan per la vicepresidenza è emerso tutta la distanza culturale tra quella esposta da Elena Bonetti per Italia Viva: "le cariche istituzionali non si scelgono in base a criteri ideologici. Alle cittadine e ai cittadini non servono i simboli la politica di contrapposizione del rosso contro il nero ha fallito in campagna elettorale, suggerirei a Letta di non riproporla” e quella di Calenda secondo cui Zan e Fontana non potevano essere messi sullo stesso piano.

E infatti nell’intervista fatta a Calenda da Fabio Fazio, con l’evidente intento del conduttore di evidenziare la distanza tra “il buono Calenda” e il “cattivo Renzi” (strategia da settimane portata avanti dal Fatto quotidiano), il leader di Azione alla domanda su cosa avesse votato Italia Viva ha risposto “questo dovete chiederlo a Renzi” ripetendo per due volte “siamo due partiti separati”.

Certo, lo sappiamo tutti, niente di nuovo: la federazione ancora non c’è ma è in costruzione, come si sono affrettati a dire loro ma soprattutto i supporter il giorno dopo. E però i gruppi sono unici, e fissato il non vincolo di mandato, si presume che la decisione di voto sia unica. Ma la risposta è stata una caduta nella trappola di Fazio di un Calenda impulsivo e innervosito dal non poter mettere la mano sul fuoco rispetto al voto dei renziani (di qualunque partito).

Da qui le voci di rottura si sono fatte più insistenti. L’assenza di Renzi alla consultazioni con Mattarella per molti è stata una conferma. In realtà su questo nessuno screzio, il patto è che Calenda sale al Quirinale e Renzi tiene in discorso in aula. Eppure Calenda, senza che nessuno gliel’avesse chiesto, si è affrettato a dire: “Chi me l’ha dato il nome di Bellanova? lui”. Anche se fosse vero, o più verosimilmene Calenda ha reso pubblica una decisione non definitiva, anche perché annunciata mentre Renzi era a Cipro, non è ininfluente. È vero che Teresa Bellanova è presidente di Italia Viva, ma per queste cose la più indicata è sempre stata Maria Elena Boschi.

Tra l’altro Bellanova non è neppure stata eletta (vittima proprio della scellerata formazione delle liste in Puglia) ed è noto come lei fosse l’unica ad essersi sempre spesa per un’alleanza con il Pd. “La politica è rispondere delle proprie azioni. Chi ieri è andato in soccirso della maggioranza al Senato, e si vergogna di dirlo, ha tutta la mia disistima. Per me vale sempre: mai con la destra!”.

Un tweet che da Italia Viva solo chi è fuori dal Parlamento può fare. E che è molto più vicino alla linea di Calenda che di Renzi. Che cosi, può lasciarsi le mani libere per sè e per i suoi.

Senza la scortesia di dover mancare la parola data a Mattarella. Non darà la fiducia al governo Meloni, ma la sua influenza sarà decisiva sui provvedimenti migliori che il governo prenderà. A cominciare dalla giustizia. Che Calenda sia d'accordo o meno.

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