La domenica di sangue del Myanmar, che ha causato la morte di almeno 18 persone e centinaia di feriti, non ha fermato le proteste. Anche ieri, in molte città del Paese, si sono tenute manifestazioni contro il colpo di Stato. E nonostante l'indignazione del Mondo nel vedere come la polizia e il Tatmadaw l'esercito della ex Birmania ha sparato contro la popolazione inerme, le forze di sicurezza hanno continuato la brutale repressione. Ancora spari, gas lacrimogeni e granate assordanti sono stati usati contro i manifestanti che da ormai tre settimane si oppongono pacificamente al golpe del 1° febbraio e chiedono il rispetto delle elezioni vinte dal National League for Democracy (Nld), il partito della Suu Kyi.
«Questo è un esercito che è in guerra contro il suo popolo dal 1948 e non ha mai avuto nessuna esitazione nel colpire i suoi stessi cittadini», spiega al Giornale Zachary Abuza, docente al National War College di Washington ed esperto di Sud-Est asiatico. «Per dare un duro segnale e non legittimare le manifestazioni, credo che il Tatmadaw intensificherà l'uso della forza nel breve periodo».
Subito dopo l'inizio delle proteste e in coincidenza con i primi spari ad altezza uomo, le forze armate hanno schierato nelle strade del Paese anche gli uomini della 33a divisione di fanteria leggera, un gruppo d'élite già utilizzato nelle atrocità commesse contro la minoranza Rohingya nel 2017 e condannato nel 2018 da Washington. Tom Andrews, il relatore speciale delle Nazioni Unite, nei giorni scorsi aveva descritto il dispiegamento di questo reparto come «una pericolosa escalation da parte della giunta in quella che sembra essere una guerra contro il proprio popolo».
Tra le città più infuocate dalle proteste di queste settimane troviamo anche Pakokku, quella dove nel 2007 è iniziata la «Rivoluzione dello Zafferano» portata avanti dai monaci buddisti e conclusa con decine di morti e centinaia di arresti. Proprio come sta succedendo in questi giorni. Dall'inizio delle proteste, il bilancio di questa guerra impari è di oltre venti persone uccise e centinaia di feriti.
Secondo il Political Prisoners Monitoring Group, finora le autorità militari hanno eseguito 1.213 arresti. Tra questi anche 13 giornalisti. Venerdì a Yangon è stato fermato e rilasciato il reporter giapponese Yuki Kitazumi. Il suo arresto ha riacceso i ricordi di un altro giornalista nipponico: Kenji Nagai, colpito a morte da un proiettile sparato dai militari il 27 settembre 2007 mentre documentava le proteste. La sua uccisione è stata immortalata dal fotoreporter Adrees Latif, che ha fotografato Nagai mentre, già disteso per terra dopo essere stato colpito, tentava di scattare l'ultima immagine della sua vita.
I leader mondiali hanno espresso profonda preoccupazione per l'attuale situazione nel Paese e hanno chiesto ai militari di «interrompere immediatamente l'uso della forza contro i civili» e di «rispettare i diritti alla libertà di espressione». Oggi si terrà una riunione speciale dell'Asean, l'Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico per cercare di trovare una soluzione pacifica al più presto.
Ieri c'è stata la seconda udienza del processo ad Aung Suu Kyi. Oltre a essere stata imputata per «importazione e utilizzo illegale di apparecchiature di trasmissione e ricezione radio» e per aver «violato la legge sulla gestione delle catastrofi», le sono stati contestati due nuovi reati: «Violazione delle legge sulla comunicazione e incitamento al disordine pubblico».
Khin Maung Zaw, il suo avvocato, che l'ha vista in videoconferenza per la prima volta dopo un mese di detenzione, ha detto che è «in buona salute». La Signora, se condannata, rischia fino a 9 anni di carcere e l'impossibilità di candidarsi a qualsiasi elezione futura.
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