Ventiquattro ore. È in questo arco di tempo che ripongono le speranze gli avvocati di Jurgen Mossack e Ramon Fonseca, gli ex partner dell'omonimo studio legale panamense protagonista, nel 2016, di una delle maggiori fughe di notizie della storia recente: i Panama Papers. Da domani la loro storia sarà disponibile per 150 milioni di abbonati a Netflix in tutto il mondo. I malcapitati protagonisti sperano di bloccarla prima: per questo hanno denunciato per diffamazione la piattaforma di streaming e il regista, Steven Soderbergh. Pur correndo il rischio di aumentare l'attesa per la pellicola (che al botteghino non ha sfondato).
Il film - The Laundromat, che in Italia uscirà come Panama Papers - ha un cast di livello: tra i protagonisti, Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas. Dopo l'anteprima al festival di Venezia e il lancio nei cinema il 27 settembre, l'approdo tra il grande pubblico è previsto, appunto, per domani. C'è da credere che Mossack e Fonseca non saranno tra gli spettatori. Come riporta la querela presentata due giorni fa al tribunale distrettuale del Connecticut, di cui ha scritto per primo il sito britannico The Guardian, i due ex soci ritengono di essere stati ritratti come «avvocati spietati e negligenti, coinvolti in riciclaggio di denaro, evasione fiscale, corruzione e altre condotte criminose». Sempre secondo l'accusa, il racconto firmato da Soderbergh interferirebbe con il loro diritto a un processo equo negli Stati Uniti, oltre ad attirare su di loro «un'attenzione legale non necessaria né voluta» a Panama. I due risultano indagati in entrambi i Paesi.
Mossack e Fonseca hanno cessato ogni attività a marzo dell'anno scorso. Motivo: i «danni irreparabili» causati «dal deterioramento della reputazione, dalla campagna mediatica, dall'assedio finanziario e dalle azioni irregolari di alcune autorità panamensi». Il loro studio legale con sede a Panama, specializzato nella creazione e gestione di società offshore, era finito sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo nell'aprile del 2016, dopo che un loro dipendente aveva passato al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung (il quale a sua volta l'aveva condivisa con il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi) 11,5 milioni di documenti relativi a società stabilite nei cosiddetti paradisi fiscali e facenti capo a politici, capi di Stato, banche, imprenditori e celebrità. Lo studio ha sempre difeso il proprio lavoro, rifiutando qualunque accusa di riciclaggio e sostenendo di non occuparsi della gestione dei patrimoni dei clienti. A indagini in corso, un film è un'operazione rischiosa. E infatti i diretti interessati hanno fatto causa non solo per diffamazione ma anche per violazione di marchio, poiché nella pellicola compare senza permesso il logo della loro ex società, che rimarrà così «mentalmente associato a crimine e corruzione». Per il momento dal portale di streaming, che sta mettendo a punto la sua strategia di difesa, non arrivano dichiarazioni. In compenso, intervistato dal Guardian pochi giorni prima del fatto, il regista metteva già le mani avanti: «Mossack e Fonseca nel film non fanno nulla che non abbiano fatto nella vita vera. Se li avessi rappresentati mentre rubano la borsetta a una donna per strada, loro avrebbero potuto dire: «Non l'abbiamo mai fatto». Ma loro, sostanzialmente, non hanno fatto altro che rubare borsette in giro in senso globale, in ogni strada».
Si dice: bene o male, l'importante
è che se ne parli. Forse per The Laundromat - sempre che non venga bloccato dai giudici - sarà così. Su Twitter c'è già qualcuno che, condividendo la notizia, scrive: «Hanno fatto causa al film? Allora deve essere buono».
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