Puoi avere milioni di follower ragazzini, puoi esaltarli all'uso delle armi e della droga, ed essere ugualmente considerato dai giudici un artista da rispettare, perché propagandare quello stile di vita è riconducibile alle tue «scelte espressive». E pazienza se poi i tuoi follower ti prendono sul serio. Non è colpa del trapper se la violenza delle periferie urbane ha la sua musica e le sue parole come colonna sonora.
A venire tirato fuori dal carcere in nome della libertà d'espressione è uno dei nomi più noti dell'universo trapper italiano, Zaccaria Mouhib detto Baby Gang, ventitré anni. Che in prigione, a dire il vero, c'era finito non per un reato di opinione ma per un brutale fatto di sangue, una sparatoria davanti a una discoteca contro una banda rivale: lui e il suo amico e collega Simba La Rue sono stati condannati a cinque anni e due mesi di carcere, nella sentenza i loro selfie sul luogo del delitto li definisce «arcaici cacciatori che si facevano ritrarre accanto a prede animali esanimi» per impressionare le ragazze.
In attesa dell'appello, a Baby Gang erano stati concessi gli arresti domiciliari. E da qui, in aprile, per propagandare il suo nuovo album aveva pubblicato sul suo profilo Instagram un'immagine in cui punta una pistola contro l'obbiettivo, appoggiato su sacchi stracolmi di marijuana. «Erano finte sia l'arma che la droga», dicono ora i suoi difensori. Ma per la Corte d'appello era comunque vero il messaggio mandato a tre milioni di follower con quelle foto. E Baby Gang era stato rispedito in carcere. Dalla cella aveva rivendicato il suo diritto di espressione, le foto andavano «lette alla luce del loro significato simbolico e artistico» e avevano «come unico scopo quello di enfatizzare il carisma del trapper Baby Gang». Licenza poetica, insomma. Anche se il giovanotto nella vita reale non si distacca molto dall'immagine che trasmette: alla condanna per la sparatoria in discoteca si sono aggiunte nel frattempo una denuncia per un altro ferimento e una per l'attacco alla polizia durante le riprese di un video. Baby Gang è di fatto uno dei protagonisti indiscussi della faida permanente da bande rivali di musicisti, ampiamente raccontata nelle indagini del pm milanese Francesca Crupi. Insomma, nel suo caso è difficile intravvedere quella distinzione tra immagine artistica e vita reale che nella letteratura del passato era data per scontata.
Anche del contesto criminale in cui si muove Baby Gang e del suo curriculum giudiziario avevano tenuto conto i giudici in aprile nel rispedirlo in carcere dopo la pubblicazione del video. Ieri il tribunale del Riesame (lo stesso che pochi giorni fa aveva già liberato Simba La Rue nonostante le «reiterate violazioni» e la «totale incapacità di autocontrollo» che avevano rispedito anche lui in carcere) fa uscire di cella anche Baby Gang: quando gli erano stati concessi gli arresti domiciliari era stato autorizzato a lavorare, dicono i nuovi giudici, e anche le immagini postate su Instagram fanno in fondo parte del suo lavoro. «Si tratta di contenuti - ammettono i magistrati - che per un verso depongono negativamente, poiché denotano quanto meno che l'imputato non ha inteso mai prendere le distanze ed anzi sembra voler continuare ad alimentare un'immagine di sé come quella di un soggetto inserito in uno stile di vita illecito». Ma «nel caso specifico appaiono riconducibili alle scelte espressive dell'imputato nell'ambito dell'attività lavorativa che comunque egli è stato autorizzato a svolgere».
È un successo pieno della linea difensiva degli avvocati del musicista, Niccolò Vecchioni e Jacopo Chiappetta, che quando i giudici avevano riportato a San Vittore il loro assistito li avevano accusati di non capire il suo linguaggio, attribuendo ai magistrati «un giudizio di tipo moralistico e valoriale» contro Baby Gang e i
suoi amici «perché considerati emblemi di due fenomeni sociali oggi particolarmente invisi, ovvero quello delle cosiddette 'baby gang' e della musica trap» che «mutua dal rap l'impiego di espressioni e immagini cruente».
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