Emergenza gas, caro-bollette e dipendenza energetico-politica sono oggi l'effetto diretto di precise scelte fatte nel passato. E che non sono solo politiche ma, come ricorda Paolo Scaroni, vicepresidente di Rothschild in una intervista al Sole 24 Ore, il dilagare di una sorta di «isterismo verde» che ha colpito persino le rinnovabili. Basti pensare che il primo parco eolico offshore sta prendendo vita in queste settimane al largo di Taranto, ma per entrare in azione il progetto da 80 milioni ha impiegato 14 anni: avviato nel 2008, il sito ha ricevuto l'autorizzazione unica nel 2013 e subito scontri legali davanti alla giustizia amministrativa tra il Comune di Taranto e gli allora proponenti dell'iniziativa. E poi di queste ore il no del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano (Pd), a un progetto gemello in Salento. E che dire dell'opposizione di questi giorni all'idea (emergenziale) di riavviare a centrale a carbone di Monfalcone? La risposta è sempre no.
Ed è un trend così diffuso da essere stato indicato con un nome preciso: «effetto Nimby» (not in my back yard, «non nel mio giardino»). Una tendenza che ha portato l'Italia a dover dipendere per oltre il 90% dalle risorse energetiche altrui. Che poi queste siano russe (40%) o algerine, poco cambia. Anche se l'emergenza legata al conflitto ci obbliga a un esame di coscienza sui tanti no con cui cittadini, enti locali e politici hanno bloccato lo sviluppo energetico del nostro Paese.
Analogo discorso può essere fatto considerando la via nucleare passata per due referendum e, quindi, attraverso la scelta diretta degli elettori nel 1987 e nel 2011. Gli stessi che oggi contestano il caro-bolletta e la dipendenza (solo oggi scomoda) dalla Russia, ma che difficilmente rinuncerebbero a tutta l'energia necessaria per stare al caldo, cucinare e alimentare i nostri dispositivi. Eppure, un aiuto arriverebbe, come ricorda Scaroni, anche solo dall'abbassare i termostati: dai 20 gradi in su ogni grado ci costa 7% in più in bolletta.
C'è poi il grande tema burocrazia. «L'Italia ha un parco rinnovabili di grande entità che però inizia ad accusare la sua vetustà in confronto alle più moderne tecnologie. Esso, quindi, ha una amplissima potenzialità di incremento delle performance», spiega al Giornale Marco Carta amministratore delegato di Agici e direttore dell'Osservatorio Industria Rinnovabili. In sostanza, aggiornando gli impianti avremmo un ritorno energetico nazionale assicurato.
Sulla base delle stime dell'Osservatorio Industria Rinnovabili di Agici, attraverso una capillare opera di rinnovamento sarebbe possibile incrementare la potenza idroelettrica di 3,5 gigawatt, quella fotovoltaica di 7,5 gigawatt e quella eolica di quasi 9 gigawatt. «Complessivamente ben 20 gigawatt in più, per una produzione addizionale di circa 35 terawattora/anno. Ciò senza avere nessun impatto sull'occupazione di suolo. Tale produzione rinnovabile consentirebbe di evitare di bruciare circa 6 miliardi di metri cubi di gas ogni anno. Tale gas vale, alle attuali condizioni di mercato, circa 6 miliardi di euro» spiega Carta. Questi interventi di ammodernamento hanno tempi di realizzazione relativamente brevi: mediamente un anno, in molti casi anche significativamente meno. La burocrazia e una legislazione farraginosa stanno però rallentando il mercato.
«Nell'eolico sono necessari fino a 5 anni per ottenere l'autorizzazione al potenziamento di un impianto, senza contare contestazioni e ricorsi dei sempre
presenti comitati del no. Nell'idroelettrico tutto o quasi è bloccato in vista del rinnovo delle concessioni. Nel solare manca una legislazione volta a promuovere realmente il potenziamento del parco esistente», conclude Carta.
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