Erano per lo più minorenni, attratte da false promesse come ad esempio un lavoro in fabbrica, che sarebbe stato l'ideale per il miglioramento della loro condizione economica e sociale. In realtà vennero catalogate come comfort women, ragazze per lo più provenienti dalla Corea del Sud e costrette a prostituirsi per «mantenere alto l'umore» dei soldati giapponesi durante la Seconda Guerra mondiale. Ieri un tribunale di Seul ha imposto al Giappone di pagare una multa pari a 75mila euro a dodici donne che durante il conflitto furono indotte a diventare «schiave del sesso». Si tratta della prima sentenza di questo tipo in Corea del Sud, dopo che il tema è stato per anni al centro di accese discussioni tra le due nazioni. Dal 1991, 240 sudcoreane hanno raccontato di aver vissuto esperienze simili. Solo 16 sono vive ancora oggi. Nel 2013, 12 di loro hanno incolpato formalmente il Giappone per le pratiche del suo esercito. Le accuse sono sempre state respinte dai giapponesi, partendo dall'ex primo ministro Shinzo Abe che affermò di non essere a conoscenza di pratiche illecite. «Non si possono considerare prostitute ragazze che al massimo erano dame di compagnia dei nostri soldati», disse.
Tuttavia la verità è ben diversa da quanto sostenuto prima da Abe e oggi dal premier in carica Suga. Le comfort women (almeno 80mila) conducevano un tenore di vita molto duro: alloggiavano in un ambiente malsano e concedevano il loro corpo per dodici ore (dalle 9 alle 21) tutti i giorni. Ogni donna, durante il proprio turno, doveva soddisfare le esigenze di almeno 30 uomini, anche se spesso, come testimoniato dalle sopravvissute, il numero di clienti giornalieri arrivava anche a 50. Molte «donne di conforto» spesso non sopravvivevano, anche perché i soldati, una volta terminato il rapporto, potevano decidere di continuare a seviziarle e addirittura ucciderle senza incorrere in alcun tipo di sanzione. A causa dei numerosi incontri sessuali a rischio, contraevano malattie veneree, come la sifilide, che venivano curate con il Salvarsan, un farmaco potente ma altamente tossico. Il mostruoso fenomeno si concluse un anno dopo la fine della guerra. Le donne che riuscirono a uscirne vive, si stima circa il 25% sul totale delle internate, portarono con sé il trauma e lo sdegno per il resto della propria esistenza. L'esigenza di giustizia iniziò a farsi strada quando le sopravvissute, umiliate dall'indifferenza politica e di quella dei leader dei movimenti per i diritti delle donne, portarono in esame l'argomento all'Onu nel 1992.
L'anno successivo Tokyo sottoscrisse la «dichiarazione di Kono», ammettendo che migliaia di donne erano state destinate alla prostituzione, in modo volontario o meno, costrette a vivere in condizioni inumane. Tra le donne che dovranno essere risarcite c'è Kim Bok Dong, oggi 94enne, che ricorda ogni secondo della sofferenza vissuta quando, all'età di 14 anni, fu deportata dall'esercito giapponese e costretta a prostituirsi. Kim racconta che «lo strazio e l'umiliazione erano talmente forti che provai a togliermi la vita, ma alla fine decisi che dovevo resistere a quel supplizio disumano, con la speranza di tornare dai miei familiari e poter raccontare tutto».
Purtroppo di questa storia non esiste per ora un felice epilogo. In risposta alla sentenza del tribunale di Seul, il Giappone ha ribadito che questioni relative ai risarcimenti in tempo di guerra sono già state risolte con un trattato del 1965, ma le ripercussioni del logorio dei rapporti diplomatici si stanno facendo sentire in ambito commerciale.
Il Giappone si prepara a limitare le esportazioni verso la Corea del Sud di materiali ad alta tecnologia usati per la produzione di pc e telefonini. Da parte sua Seul ha già ribadito la volontà di boicottare l'importazione della birra.
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