Una nuova Tienanmen. Stavolta non in Cina ma nel Myanmar, una nuova strage di manifestanti per la libertà per mano di militari che non hanno nessuna intenzione di mollare il potere su cui hanno messo le mani anche ufficialmente all'inizio del mese, con l'arresto della carismatica leader democratica Aung San Suu Kyi. Potrebbe essere questo la repressione nel sangue di migliaia di cittadini inermi - lo sbocco delle oceaniche manifestazioni di protesta contro i generali che si sono arrogati il potere con la forza. Anche ufficialmente, si diceva, perché in realtà il Tatmadaw le potenti Forze armate nazionali hanno sempre tenuto le fila del potere fin da quando il Paese del Sud-Est asiatico che allora (e fino al 1989) si chiamava Birmania aveva ottenuto l'indipendenza da Londra. E adesso che i loro concittadini che essi pretenderebbero sudditi obbedienti e a capo chino si ribellano in massa al loro colpo di Stato e affollano a centinaia di migliaia i viali delle principali città birmane, i generali non si lasciano impressionare e minacciano apertamente la strage degli innocenti, prima che la situazione possa sfuggire di mano.
Il rischio è concreto. Non solo nella ex capitale Yangon, una metropoli di sei milioni di abitanti, e in tutte le principali città, ma anche nella nuova capitale Naypidaw, costruita dieci anni fa dal nulla nella foresta tropicale perché il cuore del potere fosse al riparo da ribellioni, i grandi larghi viali concepiti per le sfilate intimidatorie delle armate fedeli al regime sono teatro di manifestazioni anti golpiste che giorno dopo giorno diventano più affollate. Nessuna minaccia è riuscita a fermare le maree umane che marciano ordinatissime, mostrando cartelli colorati che chiedono la liberazione della loro leader e il ritorno dei militari nelle caserme. Nemmeno l'uccisione di qualche manifestante, che anzi è stato prontamente trasformato in martire della resistenza: è il caso della giovane Mya Thwe Thwe Khine, il cui funerale a Naypidaw si è trasformato in una protesta accesissima.
Ora i sostenitori di Suu Kyi hanno lanciato lo sciopero generale, nel tentativo di mettere in ginocchio l'economia e con essa il regime. La repressione è stata durissima, con centinaia di arresti. Ma di fronte alla tenacia dei dimostranti, i generali sono già passati alle minacce esplicite di spargimento di sangue in grande stile: «Non date ascolto a chi vi chiede di scendere in strada, molti di voi potranno essere uccisi», dice l'ultimo agghiacciante comunicato della giunta militare. La resa dei conti sembra inevitabile, basata com'è su una cinica scommessa fatta dai generali birmani. I quali calcolano che esista già una sovrabbondante tensione tra Cina e Stati Uniti perché a Washington pensino davvero di far pressione contro di loro in un Paese strategico che i due colossi mondiali si contendono. E le sanzioni che arrivano dall'Unione europea lasciano indifferenti i capi della giunta, proprio come gli appelli al rispetto dei diritti umani emessi dall'Onu.
In ballo c'è la gestione del potere assoluto, e a questo punto il Tatmadaw non può più tornare indietro. Negli ultimi dieci anni aveva deciso che gli convenisse liberare dai suoi ventennali arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, permettere nuove elezioni da lei vinte trionfalmente e consentire il ritorno di una democrazia di facciata sotto il loro controllo.
I generali pensavano che, accontentati così gli Stati Uniti, avrebbero ottenuto il rilancio dell'economia e minor pressione da parte della Cina. Ma Suu Kyi, strizzando un po' troppo l'occhio a Pechino, ha commesso un errore che ora sta pagando l'intero popolo birmano.
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