Il governo si arena a 156. Voto finale deciso dal Var

Risultato con giallo, riammessi in extremis i sì di Ciampollillo e Nencini. Lega e Fdi invocano il Colle

Il governo si arena a 156. Voto finale deciso dal Var

Alla fine eccolo il numero dei senatori fedeli a Conte: soltanto 156. Molto lontano dalla maggioranza assoluta (161) ma anche sotto la soglia che gli ambasciatori di Palazzo Chigi erano certi di raggiungere, ovvero 158 voti. Malgrado il mercato delle vacche messo in piedi per portare nuovi senatori nella maggioranza e l'apporto dei senatori a vita (che al Senato non vanno mai), Conte ottiene gli stessi voti che ha il fronte della sfiducia sommato all'astensione di Italia Viva. Il tabellone dice appunto: 156 sì, 140 no e 16 astenuti (quindi altrettanti 156: un pareggio), più 8 assenze. Il governo insomma incassa la fiducia per il rotto della cuffia ma non ha una vera maggioranza al Senato, ora è ufficiale, e infatti il centrodestra interroga subito il capo dello Stato. «Ci rivolgeremo a Mattarella, c'è un governo che non ha la maggioranza al Senato» dice Salvini. «Ora dobbiamo chiedere un colloquio con il Colle, non credo che chiuderà un occhio» dice la Meloni. La lunga giornata in Senato si chiude nel caos, con la presidente Casellati che chiama il «var», come negli stadi, la prova video per decidere se i voti dell'ex grillino Ciampolillo e del senatore Nencini, socialista iscritto al gruppo renziano, arrivati dopo la seconda chiama, siano validi. Baraonda, urla, contestazioni, pressioni anche fisiche dal M5s, alla fine vengono riammessi in extremis. E sono entrambi a favore del governo. Quindi la prova video, molto contestata, permette a Conte di non scendere a 154 voti, due voti preziosi per la sopravvivenza del Conte bis, ormai però fortemente in bilico. I renziani si dicono «sorpresi» dal voto di Nencini, (per Salvini è «una schifezza), il quale ha in mano anche un'arma di ricatto perchè è grazie al simbolo dello Psi che Iv ha i numeri per formare un gruppo parlamentare al Senato.

Un finale teatrale che arriva dopo altri colpi di scena, il tradimento di due forzisti (la Rossi e Causin, dopo la Polverini alla Camera) e invece la prova di coerenza di due ex grillini espulsi dal M5s ma pesantemente corteggiati nelle ultime ore da Conte e soci per fargli votare la fiducia, cioè i senatori Giarrusso e Drago, che invece votano no.

Tutto questo dopo un'intensa giornata di trattative, telefonate, incontri riservati, degna di un mercato nell'orario di punta. «I numeri sono importanti», ma ancora più importante «è la qualità del progetto politico»aveva messo le mani avanti Conte, come per dire: scordatevi che mi dimetto anche non ho la maggioranza assoluta al Senato. Decisivo, comunque, è stato l'apporto dei senatori a vario titolo del gruppo Misto, proprio quel Misto che Di Maio solo poco tempo fa bollava come un'indegna accolita di trasformisti.

Una giornata lunga, un fiume di interventi, non tutti memorabili. La Pinotti cita la Bibbia, «c'è un tempo per costruire», per dare una giustificazione nobile ai voltagabbana e opportunisti dell'ultima ora. Le citazioni vanno forte, da Vasco Rossi a Montale, la Santanchè si appoggia a Pirandello («Lei Conte è uno, nessuno e centomila, cambia maggioranze con la stessa facilità con cui cambia la famosa pochette»), Renzi cita i Malavoglia di Verga, il centrista Antonio Saccone sfodera invece De Gregori («Viva l'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura, Viva l'Italia che non ha paura») per spiegare che l'Udc voterà no alla fiducia ma poi valuterà caso per caso per il bene dell'Italia. Lady Mastella, ovvero la sentrice Lonardo, cita invece la Meloni e la sua battuta sul governo che vola alto con la Mastella Airlines. «Lei utilizzò il confortevole aereo Scilipoti per conservare il suo posticino di ministro nel governo Berlusconi. Ma ci faccia piacere! diceva Totò». La grillina Barbara Floridia conia il termine «esterefazione», non contemplato dai dizionari della lingua italiana, e fa pure l'insegnante.

Ricorda invece più Fantozzi invece il senatore grillino D'Angelo che si spertica in un elogio di Conte in stile Ventennio, «lei è il presidente più amato dagli italiani!». La Russa invece, si è convinto osservando il governo Conte che aveva ragione Ronald Reagan, «la politica assomiglia al più antico mestiere del mondo». Difficile dargli torto dopo una giornata del genere in Senato.

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