Di primo mattino, nel corridoio dei passi perduti di Montecitorio, in uno dei tanti giorni della verità che costellano la storia dei governo Conte, ti accorgi subito che l'aria è cambiata. Felice D'Ettore, uno dei parlamentari di Forza Italia che erano tentati dalla conversione sulla via di Palazzo Chigi, di fronte al momento non proprio felice per il premier, rinnega la nuova fede. «Io ho corteggiato Conte!? Giammai - nega -. È lui che ha corteggiato me in nome della comune appartenenza alla classe accademica (entrambi sono professori universitari, ndr)». Nessuno è più sensibile ai cambi di fase degli abitanti del Palazzo. Hanno un fiuto animalesco. E non bisogna essere dei geni per capire che Conte quello dei proclami tv, delle dirette facebook, delle task force a piramide è più debole di ieri. E, di converso come avviene sempre nei momenti di crisi, torna centrale quel luogo che al premier è sempre stato ostico, magari perché non lo conosce oppure perché ha l'educazione curiale di chi preferisce le segrete stanze, cioè il Parlamento. Di fatto quella parodia di cesarismo che ha messo in scena nei mesi dell'emergenza Conte, con il fido Roccobello Casalino, era solo un cesarismo di riporto, di chi ha difficoltà a rapportarsi con i rituali della politica. Ora, invece, che è più vulnerabile, è costretto a farlo. Tutti i giorni.
Ieri Matteo Renzi ha minacciato la crisi se il presidente del Consiglio non si rimangerà la task force sul Recovery fund, beccandosi nell'aula del Senato i complimenti all'opposizione, da Salvini alla Rauti. Conte, invece, ha evitato le battute scocciate con cui fino a qualche settimana fa liquidava ogni polemica. Anzi, si è dato da fare per strappare un compromesso con il leader di Italia viva per non andare in Europa a mani vuote. Gli ha chiesto attraverso i soliti ambasciatori se era possibile approvare in Consiglio dei ministri solo il piano di ripartizione degli interventi e non «la struttura» che li deve gestire, ma si è beccato un secco no. «Io non cambio posizione e non mi piacciono i giochetti - spiegava ieri Renzi nel bel mezzo dei saloni di Palazzo Madama -: io ho posto una questione di principio! Non mi interessano strapuntini in cabine di regia, dirette facebook, task force, le veline da Grande fratello, ma voglio discussioni franche in Parlamento sulla legge di Bilancio altrimenti il premier ha i posti dei miei ministri a disposizione». E anche se il Pd, quello ortodosso, non quello della tradizionale «corrente ministeriale» che puntualmente si forma alla nascita di ogni governo, non minaccia crisi, non puoi non accorgerti che rispetto ad un passato, anche recente, non solidarizza più con Conte, ma sta a guardare. Anzi, non gli risparmia dei calci negli stinchi che fanno arrabbiare non poco il premier in nome della democrazia parlamentare. «Non si può - è il monito che gli lancia Graziano Delrio nell'aula di Montecitorio - commissariare il Parlamento». Anzi, questa parte del Pd è convinta che il premier, invece di adirarsi, dovrebbe ringraziare. «Dovrebbe essere più umile - rimarca Delrio sulle scale di Montecitorio - come Papa Francesco». E accanto a lui Enrico Borghi chiosa: «Sono giorni che la vecchia politica salva il prof. Conte».
Appunto, per salvarsi il premier deve adeguarsi, sempre che gli basti. Deve dimenticarsi le task force, i dpcm. Non coltivare più, anche se solo a parole, l'immagine dell'uomo solo al comando che si circonda di commissari e consulenti. Deve sudare sette camicie alla Camera e al Senato. Magari dovrà anche ingoiare quel boccone indigeribile che è un rimpasto, se non vuole affrontare l'azzardo di una crisi. Sono le incognite della democrazia parlamentare. Se ne sono accorti anche i grillini. Una volta bastava un post sul sito dell'Elevato per calmare la truppa. Ieri sul Mes al governo è andata bene, ma quanta fatica. «Ho passato 48 ore a studiare la riforma del Mes - confida il sottosegretario Gianluca Castaldi - e per convincere in videocall chi non la voleva votare. Una rottura di balle, ho gli occhi che mi bruciano. Ora altra rottura di balle con i renziani. Io, poi, ai toscani preferisco i cubani. Dal punto di vista dei sigari non come Casalino». Già, le dirette facebook non bastano più. «E cambiata la fase», ammette alla buvette di Palazzo Madama il ministro Federico D'Incà.
Comincia a capirlo, sia pure a fatica, lo stesso Conte. I sondaggi sono sempre più crudi. Secondo la maga Alessandra Ghisleri l'indice di gradimento del premier è al 38,4%, quello del governo al 31%, l'operato dell'esecutivo nella seconda ondata della pandemia è bocciato dal 55% degli italiani. «Ho, però, il dubbio fondato - confida la maga - che glieli montino in modo da renderli positivi, che gli propinino una lettura un po' farlocca». Succede, è il vizio della «torre d'avorio», che corrompe quelli che in una congiuntura particolare si sono sentiti indispensabili. Un po' tutto il mondo di Conte: dal commissario Arcuri al portavoce Casalino. Guai poi a dire a Roccobello che potrebbe essere sacrificato dal premier per restare in sella. «Ah, ah, ah! - è la risposta -: amore, è una di quelle ipotesi impossibili!». C'è poi anche chi, invece, duro di comprendonio, non lo capisce proprio che la fase è cambiata. Racconta il renziano Catiello Vitiello: «Diciamo no alla task force di Conte sul Recovery fund e il ministro Bonafede si inventa la task force per l'alleanza contro la corruzione per controllare come saranno spesi i fondi europei: 300 persone. Vorrà dire che spenderemo tutti i soldi Ue in consulenze»!
Di fronte a tutto questo i piddini sono attoniti. Poi ogni anima - e sono tante - fa il suo gioco. I ministri se la prendono con Renzi. «Non ho detto che somiglia a Orban - precisa il ministro Giuseppe Provenzano - ma che rompe le palle come Orban». Gli altri, invece, guardano la partita tra Conte e Renzi alla finestra. «La linea del Pd?», chiedi al numero due, Andrea Orlando. E lui risponde con un'ironia: «Criptica». I tanti, invece, che hanno come riferimento fuori dal Palazzo Massimo D'Alema, a cominciare dal ministro Gualtieri, studiano il disgelo tra il leader Maximo e Renzi. Mentre Nicola Zingaretti, al solito, si tiene a riparo. Lo fa non per politica, ma per temperamento. Se il suo assessore alla Sanità alla Regione dice che i ristoranti nel Lazio resteranno chiusi fino ad aprile, lui automaticamente mette le mani avanti: «Questa è una cazzata. Non esiste. Sono decisioni del governo. Io l'unica iniziativa che ho avuto è chiudere Ikea nel weekend come tutti i centri commerciali». Lui è fatto così. Renzi ieri gli ha indicato il modo «per far sentire la propria voce, per non tirare giù le braghe». Ora bisogna vedere se il segretario del Pd ha voglia di seguirlo, di assecondarlo, o no. Conte, invece, come sempre nei momenti difficili, tenta di galleggiare: «Ci vuole - dice con il tono paternlistico - coesione nella maggioranza, bisogna arrivare a sintesi comuni».
Abbandonato Churchill, ora per sopravvivere si ispira a Arnaldo Forlani, proprio il giorno del compleanno del vecchio leader dc. Messe da parte le dirette facebook e le veline di Roccobello, per non avere problemi seguirà il vecchio motto dell'«Arnaldo» con i giornalisti: «Posso parlare per ore senza dir niente».
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