A due giorni dallo «strano episodio» dei due droni abbattuti a favore di telecamera notturna proprio sul sancta sanctorum del potere putiniano, la versione ufficiale fornita a tamburo battente da Mosca appare sempre meno credibile. Si vorrebbe far credere che gli ucraini, nell'imminenza di un'annunciata controffensiva per la quale non disporrebbero di forze sufficienti (questo è il mantra dei mantra della propaganda russa del momento), abbiano deciso di tentare il colpaccio: uccidere nientemeno che Vladimir Putin in persona. Come se a Kiev non sapessero (oltre al piccolo dettaglio che Putin di notte al Cremlino non c'è mai) che un'azione del genere sarebbe un suicidio, l'unica forse in grado di alienar loro l'indispensabile sostegno occidentale e di mandar fuori di testa i colonnelli del regime russo con le loro valigette atomiche a portata di mano.
Non dimentichiamo il contesto. Siamo in Russia, signori. Nel Paese del «vranyo», termine unico al mondo che indica la bugia sfacciata usata dal potere per ricordare che può fare quello che vuole - solitamente delegando il lavoro sporco ai servizi segreti - negando qualsiasi evidenza in assenza di un'opinione pubblica degna di questo nome (chi non è d'accordo con il Capo ormai è ipso facto un traditore della Patria e fila in galera per decenni). Il Paese in cui già pochi minuti dopo la diffusione della notizia del presunto attentato, non dando il minimo segno di quello che avrebbe dovuto essere un ovvio frastornamento, il coro polifonico del potere ha reagito all'unisono chiedendo vendetta. Non solo contro i «nazisti al potere in Ucraina» (altro formidabile esempio di «vranyo»), ma contro gli Stati Uniti indicati ieri come mandanti del misfatto. Stiano attenti gli americani, è arrivato a minacciare il portavoce presidenziale Dmitry Peshkov, il terrorismo stragista potrebbe ricomparire in Occidente.
Questo richiamo alle presunte colpe di quell'«Occidente collettivo» che Mosca indica come il vero nemico contro cui la Santa Russia starebbe combattendo, la dice lunga. Putin ha assoluto bisogno di un nemico siffatto, di una presunta minaccia occidentale alla Madrepatria contro cui mobilitare il popolo in armi. L'imminente 9 maggio, ricorrenza della vittoria staliniana sui nazisti tedeschi nel 1945, serve perfettamente allo scopo. Offre a un Putin in crescente difficoltà perfino presso i suoi più fedeli oligarchi come quel Gennady Timchenko discretamente sempre al suo fianco fin dai tempi pietroburghesi della prima costruzione del suo cleptocratico regime il pretesto forse ultimo per camuffarsi da protettore della Patria minacciata: serrare i ranghi contro i nazisti di oggi come i nostri padri fecero contro quelli di ieri, questo è il messaggio.
E come allora, zero compromessi: nessun negoziato con il «criminale Zelensky», solo lotta (non «guerra», in Russia è vietato per legge chiamare certe cose col loro nome) fino alla vittoria finale, senza più negare la volontà di escalation di violenza e un disegno golpista a Kiev. Questo vedremo nel prossimo futuro, altro che pace. Anche perché, nel frattempo, Zelensky è all'Aia a perorare la causa del processo internazionale ai criminali di guerra russi che stanno martoriando l'Ucraina, da Putin in giù.
Perfino il presidente del Sud Africa Ramaphosa, vicinissimo allo «zar», gli ha sconsigliato di venire nel suo Paese «perché saremmo tenuti ad arrestarti». Di questo, ormai, ha paura Putin, e un bel polverone contro altri «criminali» gli fa un gran comodo.
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