Madrid - Sul filo di una crisi di nervi e con l'incubo di rimanere impantanato fino a un ennesimo turno elettorale, ieri pomeriggio, Pedro Sánchez è stato investito come premier con il voto del plenum del Congresso di Madrid. La fumata bianca è arrivata alla seconda votazione, dopo che nella prima di sabato scorso, il leader socialista aveva ottenuto 166 sì e 165 no, con 18 deputati astenuti. Un voto di prova che ieri è mutato di poco: 167 voti a favore e il resto uguale alla prima votazione, così il bel Pedro ha tirato un sospiro di sollievo e ha incassato la maggioranza relativa. Ha retto l'accordo con i nazionalisti di Erc (la Sinistra Catalana Repubblicana) e i baschi di Bildu, la frangia più dura e vicina al movimento di terroristi dell'Eta, scioltosi nel 2017.
Va bene così, anche col minimo relativo, lontano dai 176 su 350 seggi della maggioranza assoluta, Sánchez e l'alleato Pablo Iglesias hanno allontanato l'incubo di nuove elezioni, le quinte dal 2015, e salvato la faccia davanti agli elettori spagnoli. Da domani s'inizierà a cucire la prima coalizione di governo nella storia delle giovane democrazia iberica. Prima coalizione assoluta dal 1976 che rompe più di quattro decenni di governo bipartisan e primo esecutivo di sinistra con il Psoe, Podemos e un puzzle di piccoli alleati pescati tra nazionalisti, regionalisti e comunisti.
Tuttavia, l'esito dell'investitura è rimasto appeso a un accordo, faticosamente raggiunto, dopo mesi di negoziati, liti e fumate nere. Sánchez è riuscito ad avere l'astensione di quindici deputati di Erc il cui presidente Oriol Junqueras sta scontando 13 anni di galera per disobbedienza, sedizione e malversazione di denaro nel golpe secessionista fallito contro Madrid del 2017 e di tre di Bildu. Il premier, per assicurarsi l'astensione dei suoi deputati, lo scorso dicembre aveva aperto un tavolo di trattativa con la Generalitat, sorvolando sui violenti disordini di ottobre in Catalogna, esplosi dopo il verdetto del Tribunale Supremo. Non si sa cosa Sánchez abbia offerto ai catalani che rinnegano Madrid e la loro appartenenza alla Spagna, ma la crisi politica del Parlament di Barcellona, fin dal 2015 ha influito pesantemente sul bloqueo.
I quattro anni d'instabilità politica non erano nemmeno stati scalfiti da quattro turni elettorali e da un ribaltone: nel 2018 Mariano Rajoy, per una mozione di «sfiducia costruttiva», dovette passare la mano a Sánchez che ieri si è giocato tutta la sua credibilità di politico in una Spagna orfana di un governo dallo scorso aprile, ma sostenuta da una benedetta ripresa economica.
Nei prossimi giorni nascerà il governo rosso-viola del premier Sánchez e del suo vice Iglesias.
Un esecutivo bicolore, sostenuto da 155 deputati che dovranno corteggiarne altri 21, tra nazionalisti, centristi e comunisti, per affrontare argomenti non più posticipabili: la finanziaria, le pensioni, le riforma del lavoro, il salario minimo e, non per ultima, la «questione catalana», una rogna che se non risolta, affonderà i socialisti.Ieri Pablo Casado, leader del Partito Popolare e il premier eletto si sono stretti la mano, dopo giorni d'insulti nell'emiciclo. L'era delle coalizioni è iniziata e la Spagna ha vinto un altro suo tabù politico.
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