I suoi colleghi la considerano una sciagura. Ma lui esce dalla comfort zone delle categoria e dal politically correct con affermazioni che ribaltano quelle ripetute per decenni come mantra dai capicorrente del mondo togato. «Sento dire - afferma Valerio de Gioia, Giudice della Corte d'appello di Roma, autore di numerosi libri fa cui il Codice penale e di procedura penale Integrato, edito da LaTribuna - che un pm sganciato dal giudice perderebbe la cultura della giurisdizione e diventerebbe una sorta di superpoliziotto, ma questo è falso. Semmai si osserva che qualche volta è il giudice ad essere appianato sulla figura del pm. La contaminazione c'è ma funziona al contrario di quel che molti analisti sostengono».
Dottor de Gioia, davvero la separazione delle carriere è un tema centrale o solo un pretesto per punire voi magistrati?
«Nessuna punizione. Con l'introduzione del nuovo codice di procedura penale, nell''89, siamo passati dal sistema inquisitorio a quello accusatorio e la riforma costituisce il naturale completamento di questo percorso virtuoso».
Questioni tecniche, no?
«No, qui parliamo di elementi di civiltà a tutela del cittadino. Con il rito accusatorio la prova si forma in aula: accusa e difesa duellano davanti al giudice che deve essere terzo e indipendente».
E oggi non lo è?
«Attenzione: l'indipendenza non deve essere solo esterna, ma anche interna, rispetto al pm. È difficile mettere sullo stesso piano pm e avvocato difensore quando il pm, fuori dall'udienza, mi dà del tu. Ma perché a me giudice non dà del lei come con fa con gli avvocati o, come a loro volta, fanno gli avvocati? Un'eccessiva confidenza attenua quell'indipendenza interna cui accennavo e che è molto importante. Capisce?»
Che cosa?
«Può capitare che il giudice abbia, quasi inconsapevolmente, un pregiudizio positivo sul pm. Se il pubblico ministero è uno di noi, il rischio è che si tenda fatalmente a sposare le sue tesi ed allinearci sulle sue posizioni, ma la riforma dell'89 va in un'altra direzione e dobbiamo completarla perché così è monca».
Così come?
«Il nuovo codice predica la parità ma senza la separazione delle carriere la parità non è effettiva».
Insomma, il pm non rischia di perdere la cultura della giurisdizione?
«A me sembra che oggi il fenomeno prevalente sia opposto, quello della contaminazione del giudice con la mentalità del pm».
L'assoluzione di Salvini, venerdì, è letta da molti come la conferma che invece il sistema funziona. Il tribunale non si è lasciato condizionare dall'accusa. Non è d'accordo?
«Certo, non c'è dubbio e io non voglio e non posso entrare nel merito della vicenda, ma il procedimento contro Salvini mi spinge a fare una considerazione generale».
Quale?
«Quando, in casi come questo, c'è un assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste, che vuol dire che non c'era il reato, anzi i reati di sequestro di persona e di rifiuto di atti d'ufficio, ci dobbiamo porre una domanda: perché questo non è stato accertato dal giudice già in sede di udienza preliminare così da evitare la celebrazione di un lungo e dispendioso dibattimento?»
Lei che idea si è fatto?
«Si torna al pregiudizio positivo e alla finora mancata separazione delle carriere. Il giudicante, parlo sempre in generale, ritiene il pm, magari inconsciamente, come un primo giudice che ha vagliato la posizione dell'indagato e accoglie le sue ragioni. Ci sono procedimenti che non dovrebbero nemmeno incominciare o dovrebbero trovare lo sbarramento dell'udienza preliminare. E però arrivano a processo, occupano le prime pagine dei giornali per anni, fanno discutere mezzo mondo e, infine, si chiudono con raffiche di assoluzioni. Assoluzioni che giustamente mettono in luce il fatto che le accuse erano debolissime o, meglio, i reati contestati non c'erano. Qualcosa non quadra».
Ma l'assoluzione restituisce all'imputato la sua onorabilità. Non è questo il punto decisivo?
«Sì sulla carta ma non sempre nella realtà. L'avviso di conclusione delle indagini, il rinvio a giudizio e peggio ancora l'arresto sono per l'opinione pubblica un anticipo della condanna. Lo stigma rimane e non se ne va del tutto nemmeno dopo l'assoluzione che peraltro, spesso interviene, come accennavo, a distanza di anni.
Molti continueranno a pensare che l'imputato di turno l'abbia fatta franca in qualche modo. Anche se le motivazioni del verdetto assolutorio sono magari molto nette. Per questo, anche per questo, la separazione delle carriere è a mio avviso una grande opportunità».
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