San Patrignano in rivolta contro la serie di Netflix

La Comunità si dissocia da "SanPa": "Data voce solo ai detrattori, i processi li hanno smentiti"

San Patrignano in rivolta contro la serie di Netflix

A un quarto di secolo dalla morte, non c'è pace per Vincenzo Muccioli. Sul fondatore della comunità di San Patrignano, la struttura di recupero di tossicodipendenti più grande d'Europa, piomba l'ultimo giorno del 2020 un macigno alla memoria: la serie «Sanpa» (tecnicamente una «docuserie») in cinque puntate prodotta da Netflix e divulgata in centonovanta paesi. La narrazione è fredda, apparentemente oggettiva, tra filmati d'epoca e interviste agli ospiti della grande tenuta vicino Rimini. Ma Muccioli ne esce a pezzi. Delle «luci e tenebre» annunciate nel sottotiolo della serie, restano alla fine quasi solo le tenebre. A venire raccontata in mezzo mondo è l'immagine di una sorta di avventuriero, che inizia la sua carriera come santone e si procura da solo le stimmate con un tronchese, e che finisce alla testa di un impero finanziato con donazioni di ogni genere e dagli appoggi con la politica: il creatore della comunità viene indicato come il vero artefice della legge Jervolino-Vassalli sulla droga, che avrebbe portato lo Stato a riversare sulle comunità di recupero, prima di tutto San Patrignano, una montagna di soldi.

Così, inevitabile, arriva la reazione dei successori di Muccioli. Che la serie fosse in lavorazione, a San Patrignano lo sapevano bene, perchè la regista Cosima Spender è stata in visita alla comunità per diversi giorni, ha parlato a lungo con i responsabili, ha raccolto storie e notizie. Di certo non si aspettavano, a «Sanpa», che il fondatore ne uscisse come un santino. Ma il risultato finale è peggiore di ogni aspettativa. Anche perchè la serie scava a fondo anche sugli episodi più cupi della saga di San Patrignano: a partire, nella quinta puntata, dalla morte di Roberto Maranzano, l'ex tossicodipendente ucciso a botte nella porcilaia della comunità, e scaricato in una discarica in Campania avvolto in una coperta con il marchio di San Patrignano. Un delitto per cui vennero condannati due dirigenti della comunità, e Muccioli venne prosciolto. Ma la serie racconta che Muccioli sapeva, e che scelse di non denunciare. Tanto che alla fine venne incriminato e condannato per favoreggiamento.

Il risultato finale è una ricostruzione da cui la comunità ieri «si dissocia completamente», un racconto «sommario e parziale» basato «in prevalenza sulle testimonianze di detrattori», «un resoconto unilaterale che paia voler soddisfare la forzata dimostrazione di tesi preconcette». E i vertici lanciano l'allarme sui danni che alla comunità e ai mille giovani che ancor oggi vi sono curati potrebbero venire da un «prodotto chiaramente costruito per scopi di intrattenimento commerciale».

Della lunga lista di ex ragazzi passati per la comunità romagnola, la regista Spender viene accusata di avere dato voce solo a chi era disponibile a sostenere la tesi dell'accusa: quella di una struttura dai metodi brutali, dove l'obiettivo del recupero era perseguito senza rispetto per i diritti di chi, volente o nolente, vi approdava. L'unica voce che si leva a difendere la storia di Muccioli e della sua creatura è la testimonianza del giornalista e conduttore Red Ronnie. Per il resto, delle divisioni aspre che accompagnarono la saga di San Patrignano - da una parte testimonianze di riconoscenza e attestati di stima, dall'altra le accuse di violenze e i sospetti di affari illeciti - nelle cinque puntate della docuserie resta solo il lato oscuro.

Quello dell'intercettazione di Muccioli, che parlando di un ospite scomodo dice: «A quello lì bisogna sparargli... due grammi di eroina, un po' di stricnina». Da ieri, in centonovanta paesi, il fondatore di San Patrignano è questo.

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