Contare i ricorsi pendenti avanzati dagli avvocati di decine di imprenditori russi, più prosaicamente chiamati oligarchi e considerati frettolosamente «facilitatori» dell'invasione dell'Ucraina, richiederebbe un pallottoliere piuttosto capiente. La giustizia Ue ha iniziato infatti a dar ragione ad alcuni di essi. E il rischio di un potenziale effetto valanga che annulli certe sanzioni ora preoccupa le autorità di Bruxelles; tanto che si sta cercando di rinforzare l'apparato giuridico con nuovi esperti. E c'è chi nota che le «punizioni» abbiano generato un effetto boomerang: piccoli e grandi magnati residenti da anni in Europa, i cui legami con Putin spesso non andavano al di là di sospetti o articoli di stampa, sono obtorto collo rientrati in Russia, riportando denari nella Federazione vista la scure di Bruxelles; che ha optato per la criminalizzazione di chi faceva affari e pagava le tasse.
Prove difettose, dubbi e «falle», a cui il nuovo governo dei 27 potrebbe dover porre rimedio. Il vaso di Pandora si è aperto lo scorso aprile, quando la Corte di Giustizia Ue ha dato ragione al co-fondatore di Alfa Group Mikhail Fridman (miliardario che ha trascorso l'ultimo decennio a Londra prima di tornare recentemente a Mosca) ordinando per lui e per il socio Petr Aven la revoca delle sanzioni: rilevata l'insufficienza delle prove su coinvolgimenti nell'invasione dell'Ucraina, non avrebbero dovuto essere nella lista nera, per la Corte. Fridman, nato peraltro in Ucraina, aveva pure velatamente criticato l'azione di Putin a Kiev. Eppure restano sanzionati perché l'aggiornamento dei criteri con cui considerare ogni grande imprenditore russo potenzialmente pro-Putin sono aggiornati solo semestralmente. Gli errori di valutazione riconosciuti dalla Corte minano però il complesso della strategia. Due linee si stanno «scontrando» a Bruxelles: da un lato il pressing affinché i 27 smettano d'agire d'imperio; dall'altro chi si preoccupa di non dare assist allo zar che ha preso a pretesto le falle per sostenere come l'Ue stia agendo ideologicamente e non in punta di diritto.
Fino al 2023, il tagliafuori aveva tenuto: vedi il caso di Dmitry Pumpyanskiy, ex re dell'acciaio, e della moglie Galina Evgenyevna. Pure loro, ricorso. A settembre il tribunale Ue gli aveva dato torto. Ma il 26 giugno la Corte Ue ha ordinato la cancellazione dalle sanzioni e detto che bisogna pure pagargli le spese processuali. C'è chi chiede di rivedere sanzioni come quelle contro Moshe Kantor, uomo d'affari russo-israeliano ed ex presidente del Congresso ebraico europeo (EJC), rinnovate nonostante errori nel dossier. Poi ci sono i parenti degli uomini di affari: come la sorella di Alier Usmanov, uno dei primi a esser colpito, noto tra le altre cose per aver finanziato a Roma restauri valsi a lui nel 2016 l'Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Usmanov è sotto inchiesta in Germania, ma dopo due anni non ci sono state prove di attività criminale. L'altra sorella Usmanov, Gulbakhor Ismailova, ginecologa, è ancora sotto sanzioni perché era beneficiaria prima del 2022 in due trust di famiglia istituiti dal fratello anni prima. L'avvocato di Ismailova ha dichiarato che lei ha rinunciato per sempre a ogni beneficio accusando l'Ue di «abuso di sanzioni senza giustificazione legale». Il dilemma Ue ora è come (e se) proseguire nel solco tracciato da Von der Leyen. O «proteggersi» dalla pioggia di ricorsi e con più attento screening mirare profili davvero «putiniani».
Pure l'ex patron del Chelsea Roman Abramovich ha chiesto la cancellazione delle sanzioni e un rimborso da 1 milione di euro.
Ha perso in prima battuta. Altri hanno già rimpatriato miliardi, in una tendenza che ha rafforzato l'economia di Mosca e consolidato il sostegno delle élite attorno a Putin. Il contrario di ciò che le sanzioni si proponevano di ottenere.
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