Lo scienziato con due lauree che ha già recitato in 91 film

Ha lavorato per il team che scoprì la "particella di Dio", ma anche con Antonioni e Tornatore. "Il miglior consiglio me lo diede Gassman: Sul set cercati una sedia"

Franco Moscon (nel cerchio) in divisa militare nel film "Il principe abusivo". Clicca sulla foto per ingrandire
Franco Moscon (nel cerchio) in divisa militare nel film "Il principe abusivo". Clicca sulla foto per ingrandire

Detto senza offesa, il suo ruolo nel cinema assomiglia a quello di Francis, il mulo parlante, popolarissimo equino nato nel 1950. Franco Moscon, quasi coetaneo dell'ibrido a quattro zampe (ha 64 anni), s'è conquistato una sua notorietà appunto nel ruolo di parlante, cioè il figurante che sul set sta un gradino sopra la semplice comparsa, tanto da aver girato, a oggi, la bellezza di 91 film, nove in più di quelli che ebbero per protagonista Jean Gabin. Con molta umiltà, porta il basto per 12 ore filate, fino a quando il fascio dello spot lo illumina e il regista lo autorizza a pronunciare una frase. Poi incassa pochi euro, saluta e se ne va.

Come ibrido a due zampe, però, Moscon non ha rivali al mondo. Quello di attore per lui è solo un hobby. Nella vita ha sempre fatto il ricercatore scientifico, o forse sarebbe più esatto dire lo scienziato, essendo a un tempo ingegnere elettronico (laurea nel 1978) e biofisico (laurea nel 1992). Non s'era mai visto un componente del team che ha realizzato i sensori per l'acceleratore del Cern di Ginevra, serviti a scoprire il bosone di Higgs, il quale abbia anche affiancato I due figli di Ringo, alias Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Oltre che con la «particella di Dio», Moscon ha molta confidenza con le parti prelatizie: «Peccato che ogni volta mi costringano a tagliarmi i baffi». È stato cardinale in Habemus Papam di Nanni Moretti; parroco in Un boss in salotto; sua eminenza Giovanni Gerolamo Morone in Il Concilio di Trento; ancora porporato in Papa Luciani, il sorriso di Dio. Quando sullo schermo si toglie l'abito talare, è solo per indossare una divisa: marine americano al check point iracheno in La tigre e la neve di Roberto Benigni; poliziotto in World trade center di Oliver Stone; gerarca fascista in Vincere di Marco Bellocchio; ufficiale comandante all'Obersalzberg (il Nido dell'Aquila sulle Alpi bavaresi dove trascorreva le vacanze Adolf Hitler) in Moloch di Aleksandr Sokurov; generale in Il principe abusivo di Alessandro Siani. Ha recitato con tutti i registi: da Michelangelo Antonioni ( Il mistero di Oberwald) a Giuseppe Tornatore ( La migliore offerta), da Carlo Verdone ( Il gallo cedrone) a Luigi Magni ( Nell'anno del Signore), da Lina Wertmüller ( Mimì metallurgico ferito nell'onore) a Carlo Lizzani ( Le cinque giornate di Milano), da Liliana Cavani ( De Gasperi, l'uomo della speranza) a Bille August ( Treno di notte per Lisbona). È stato spalla degli attori più amati: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Donald Sutherland, Geoffrey Rush, Terence Hill, Giovanna Mezzogiorno, Riccardo Scamarcio, Neri Marcorè, Monica Bellucci.

Moscon, residente a Lavis, ha lavorato per 22 anni all'Irst, l'Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica finanziato dalla Provincia autonoma di Trento, dove si occupava di microelettronica. «Sviluppavo circuiti per le Tac e le risonanze magnetiche. Vedendo la mia propensione per la medicina diagnostica, i colleghi mi hanno spronato a specializzarmi. Mi sono buttato sulle nanotecnologie, ho indagato sulle malattie neurodegenerative, ho sviluppato microcateteri non invasivi per i bambini». In pensione dal 2004, è diventato ricercatore a progetto («per passione») dell'Università di Trento e del Cimec (Centro interdipartimentale mente cervello), nonché degli atenei di Pisa e Ferrara. Ai suoi test cognitivi per valutare i casi di Alzheimer e Parkinson si sono interessati l'Università di Cambridge, il Paul Scherrer institut di Zurigo e il Max Planck institut di Düsseldorf.

Il richiamo dei teatri di posa è talmente forte che, allorché finisce in crisi d'astinenza per mancanza di film, Moscon si accontenta degli spot. Ne ha girati per Coca-Cola, Bauli, Vecchia Romagna, Balocco, Paluani, Trenitalia, Leerdammer, prosciutto Rovagnati, olio Cuore, caramelle Ricola, cioccolato Lindt.

Dopo aver celebrato nel 2014 i 40 anni di matrimonio con Franca Danielli, che era segretaria alla Grundig oggi fallita, nel 2016 il ricercatore scientifico celebrerà le nozze d'oro con il cinema. «Ho trascinato sul set anche lei. Sono le nostre gite, che spesso diventano vacanze brevi».

Quanti film avete girato insieme?

«Circa 30, soprattutto cinepanettoni. Siamo comparsi anche nella fiction Un passo dal cielo, seconda e terza serie».

Occhio che sua moglie la batte.

«Da ospite e opinionista nei salotti televisivi, tipo Buona domenica, Amici e Pomeriggio 5, lo ha già fatto. Di sicuro mi ha battuto negli incassi: concorrente ad Affari tuoi, ha vinto 30.000 euro».

Primo ricordo del grande schermo?

« Marcellino pane e vino con Pablito Calvo al cinema parrocchiale Sant'Uldarico. Piansi dall'inizio alla fine. Avrò avuto 6 anni. Fino ad allora avevo visto i film sugli unici due televisori di Lavis, al bar Varner e all'albergo Corona».

Primo ruolo da figurante?

«A 15 anni. Nel luglio 1966 ero con i nostri parenti romani in riva al lago di Bracciano per una scampagnata. Mio cugino Aldo mi portò in paese, dove lo aspettava il suo amico Antonello Venditti, a quel tempo uno sconosciuto. In piazza, seduto su una panchina all'ombra, c'era Federico Fellini intento a leggere il copione di un film, in attesa di andare a pranzo con il collega Giorgio Simonelli, che stava girando I due figli di Ringo con Franchi e Ingrassia nella vicina foresta di Manziana. Simonelli mi chiese: “Senti n'po', ber giovane, voresti venì a fa' n'a comparzata?”. Alle 14 ero già sul set. M'infilarono un poncho, mi calcarono sulla testa un sombrero e mi sporcarono la faccia con un tappo di sughero bruciacchiato: ero diventato un peone messicano. Attraversai la piazza tenendo per la cavezza l'asinello Pomito, mentre due pistoleri si sfidavano a duello. Ricordo ancora la battuta che mi fecero pronunciare: “Señoras y señores, miren que hermosa verduras vender hoy Manuelito”».

Epocale.

«Da lì è nato tutto. L'anno seguente ero di nuovo nella foresta di Manziana per La freccia nera con Loretta Goggi, diretto dal grande Anton Giulio Majano».

E adesso tutti la vogliono.

«Ma se aspetto che arrivi una telefonata, sto fresco. Vado direttamente sui set, dove mi conoscono, e vengo arruolato all'istante. Solo che con la crisi la concorrenza è diventata spietata. Alle 6 del mattino trovi già una ressa di disperati, per lo più disoccupati».

Quanto guadagna una comparsa?

«Circa 80 euro al giorno. Un parlante sui 150. Va meglio con gli spot: fino a 2.500 euro in tre giorni».

E un attore?

«Per una posa in media piglia 1.200 euro. Ma ho saputo che i protagonisti dei cinepanettoni si fanno dare 2 milioni di euro per un mese di lavoro».

Come faccio a riconoscerla in La migliore offerta?

«Sono il cliente che fa un rilancio durante un'asta. Ho saputo da radio fante che Giuseppe Tornatore l'estate prossima girerà tra Bolzano e Trento».

Ma tutti qui vengono i registi?

«Persino la caserma di Genova del film Diaz sui fatti del G8, nel quale interpreto un poliziotto, è una scuola media di Bolzano. E il parlatorio del carcere milanese di San Vittore che si vede in Alaska con Elio Germano e Alba Rohrwacher, dove sono il familiare di una reclusa, è stato ricostruito nella caserma Rossini di Merano».

C'è un motivo?

«Ce ne sono due: i finanziamenti erogati dalla Trentino film commission e dalla Business location Südtirol. Esemplifico. A fronte di un contributo di 100.000 euro, i produttori s'impegnano a spenderne 150.000 sul territorio. Così danno lavoro agli indigeni, tengono aperti ristoranti e alberghi, fanno girare l'economia».

Chi le ha insegnato a recitare?

«Ho frequentato l'Actor's center, una scuola di recitazione romana. Corsi residenziali a mie spese».

Un investimento utile?

«Direi di sì, a giudicare da quello che è successo sul set di Vincere, il film sulla trentina Ida Dalser, prima moglie del Duce, e sul figlio Benito Albino, che il dittatore fece morire in manicomio».

Cos'è successo?

«Dovevamo girare delle scene sul Doss Trento, dove c'è il mausoleo di Cesare Battisti. Io truccato da gerarca fascista. Tutte le comparse schierate, con la divisa da balilla. M'è venuto spontaneo arringarle per scherzo con il discorso sull'entrata in guerra che Mussolini pronunciò dal balcone di Palazzo Venezia: “Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!”. Dal fondo del prato, ho visto il regista Bellocchio che mi faceva cenno con la mano di raggiungerlo. Ho pensato: oddio, questo è pure di sinistra, adesso mi caccia».

L'ha cacciata?

«No, mi ha chiesto nome ed età, meravigliandosi che conoscessi quel discorso pur non avendo vissuto sotto il fascismo. Poi mi ha messo in mano il copione: “Se la sentirebbe di pronunciare queste parole nella scena che dobbiamo girare dentro il mausoleo?”. Si trattava d'illustrare a suo figlio Alessandro, che recitava nel film, la storia del monumento. E così ho fatto».

All'Actor's center ha studiato anche da assistente alla regia?

«Si riferisce a Un fantastico via vai di Leonardo Pieraccioni? Mi sono presentato sul set in Toscana, ma ho scoperto che non potevano prendermi come figurante perché nel contratto c'era una clausola capestro: tutto il personale avventizio doveva avere un conto corrente nelle filiali di Lucca o di Arezzo della Banca popolare di Vicenza, che finanziava il film. A quel punto il regista mi ha offerto di fargli da assistente».

Se ci guadagna poco o nulla, perché si ostina a fare il figurante?

«L'ho preso come un gioco, alla De Coubertin: l'importante è partecipare».

È vanitoso, confessi.

«Un certo effetto rivedermi sullo schermo me lo fa. Mi compiaccio, ecco».

Lavorare nel cinema facilita i rapporti con l'altro sesso?

«Sì».

Ah sì? E come fa a dirlo?

«Be', insomma, dài. Parli, tiri, molli... Sicuramente instauri tante amicizie».

Che pensa in generale degli attori?

«Hanno le nostre stesse ansie. Mostri di sicurezza non ne ho conosciuti. A parte Horst Tappert, grandissimo gentiluomo, che era sé stesso sul set e nella vita. Dal 1982 al 1997 ho girato con lui 10 dei 281 episodi dell' Ispettore Derrick. Ogni anno andavo a trovarlo con mia moglie al Palace hotel di Merano, dove trascorreva le vacanze. L'ultima volta gli feci visita nel 2008 in clinica a Monaco di Baviera, quando stava per morire».

Da quale attore ha imparato di più?

«Da Gassman. Ero diciottenne. Giravamo Nell'anno del Signore. Durante una pausa in compagnia di Sordi, mi mandò a comprargli le sigarette. Al ritorno gli chiesi qualche consiglio su come muovermi in scena. Mi squadrò da capo a piedi: “A Fra', senti n'po', come prima lezione te dico questo: quanno arrivi sur set, nun pensa' ar copione e a tutte le fregnacce che se devono dì quer giorno. Piuttosto cercate 'na portrona comoda”. Quanto aveva ragione! L'attesa fra una ripresa e l'altra è snervante».

Il regista più scorbutico?

«Gianni Lepre. Sul set della fiction Una buona stagione con Ottavia Piccolo urlava come un ossesso, insultava le comparse. Mia moglie s'è sentita in dovere di dirgli: “Si dia una calmata, perché così finisce che fa un infarto”. Tre settimane dopo gli è venuto davvero un coccolone al mercatino di Natale giù a Trento».

Moglie pericolosa.

«M'è dispiaciuto. Lo conosco dai tempi in cui frequentava sociologia a Trento con Renato Curcio, Mara Cagol e Mauro Rostagno. Allora ero garzone in un negozio di via Rosmini, accanto alla facoltà. Ci si trovava a mangiare il cornetto Olimpia dell'Algida al bar Cristina. Un giorno Lepre, Curcio e gli altri studenti si asserragliarono nell'università, facendone di cotte e di crude, figli compresi. Il mio compito, durante l'occupazione, era comprargli i viveri nel negozio Super Angria e poi metterli in un cestello che mi calavano dalla finestra. A volte mi gettavano in strada 50 lire di mancia».

Le capita mai di sognare una parte da protagonista?

«Non so che cosa avrei dato per recitare al posto di Adolfo Celi nel ruolo del professor Alfeo Sassaroli, il primario di Amici miei. O almeno da sceriffo in un western. Come peone, mi sento sprecato».

(750. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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