Se i Beatles furono, come diceva John Lennon, più famosi di Gesù Cristo, Muhammad Alì fu più famoso dei Beatles. Ciascun abitante della Terra o quasi potrebbe infatti trovare, cercando bene, un po' di Alì nella propria biografia. Ho sentito ragazzi di quindici, sedici anni gridare in coro Alì bomaye! Tutti noi, giovani o vecchi, magari non per esperienza personale ma solo per il racconto di un nonno o di un bisnonno, abbiamo conosciuto e amato questo eroe, spesso senza aver visto un solo suo match.
La sveglia del nonno puntata alle tre e mezza per non perdere nemmeno la cerimonia di apertura, il canto degli inni.
Gli incontri trasformati in grandi romanzi epici con tanto di titolo: Rumble in the Jungle, oppure Thrilla in Manila: il primo (contro Foreman, Kinshasa 1974) paragonabile a La linea d'ombra, il secondo (contro Frazier, Manila 1975) a Viaggio al termine della notte. Capolavori targati Congo, Filippine, e non Las Vegas o Atlantic City, come vorrà in seguito lo stantio show-business della boxe. Ma tutto di lui è romanzo, dal furto della bicicletta che lo portò a imparare la boxe all'accettazione del Parkinson come un dono di Dio. E adesso quel romanzo non c'è più: è come se Guerra e pace fosse stato eliminato da tutte le biblioteche e da tutte le librerie, reali e virtuali, e non fosse più possibile leggerlo, ma solo udirne qualche improbabile pagina registrata tanti anni fa da una voce mal conservata, sopraffatta dai fruscii.
I libri e i film a lui dedicati non si contano, ma non sono altro che la tonaca che riveste la sua umana ventura. Lui stesso firmò più di una autobiografia. Ma in realtà tutta la sua vita è stata un'autobiografia, che si scriveva nell'atto stesso di essere vissuta, trasformandosi immediatamente in un testo capace di avvincere il lettore, di suscitare le sue risate, di farlo riflettere.
La sua risposta a Bertrand Russell, che gli aveva scritto in carcere: «Non sei scemo come sembri in fotografia». La sua risposta al più celebre anchorman d'America alla vigilia del match (suicida, dicevano) contro Foreman: «Tu dici che non sono più l'Alì di una volta? Be', poco fa ho incrociato tua moglie, e mi ha detto che non sei più quello di una volta». O quella data a un giornalista sul famoso pugno invisibile con cui sconfisse Liston: «Fu più rapido di un battito di ciglia. Probabilmente in quel momento stavate tutti battendo le ciglia».
Le fotografie: Alì che evita un sinistro di Frazier, Alì che guarda Foreman cadere lentamente al tappeto, Alì che inveisce contro Liston che non si vuole rialzare, Alì che colpisce con un pugno tutti e quattro i Beatles. La mia preferita è più rara: Alì che accarezza la testa pelata di un furibondo Earnie Shavers (per inciso, Shavers è considerato da molti il più terribile picchiatore di tutti i tempi).
Due uomini intelligenti come il suo amico scrittore Norman Mailer e il suo grande avversario George Foreman sono concordi nel dire che Alì non è stato un pugile vero e proprio: è stato piuttosto un uomo politico che ha usato la boxe per diffondere nel mondo le proprie idee, qualcosa di simile più a Gandhi o a Martin Luther King che a Mike Tyson. «Il pugile è uno come me» diceva Foreman, «ossia uno che ragiona con i pugni: ma lui era di un'altra razza».
Per tutti gli abitanti della Terra che lo hanno celebrato con libri, documentari, film e persino fumetti, lui è stato di un'altra razza, qualcosa di diverso, e al tempo stesso un uomo come a tutti piacerebbe essere. Tutti ci ritagliamo un ruolo nella vita, recitando la parte che ci scegliamo (se va bene) o che altri ci assegnano.
Lui non recitò nessuna parte, nemmeno quella del pugile: è stato soltanto Muhammad Alì, unico su questa Terra, come tutti noi. Solo che lui lo sapeva meglio di noi, e forse proprio per questo è stato davvero il più grande.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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