Zingaretti si dimette per farsi confermare. "Vergogna, nel Pd si parla di poltrone in piena pandemia"

Il segretario a sorpresa annuncia l'addio su Facebook per non essere processato dalla minoranza e restare in sella all'Assemblea nazionale del 13. Franceschini lo puntella: basta con la conflittualità, restiamo uniti

Zingaretti si dimette per farsi confermare. "Vergogna, nel Pd si parla di poltrone in piena pandemia"

La bomba esplode nel primo pomeriggio: «Basta, siete cattivi, mi dimetto», annuncia Nicola Zingaretti. Su Facebook, come l'ex Conte. Panico nel Pd: nessuno (o quasi) era stato avvertito della mossa a sorpresa del segretario. Che lancia il suo j'accuse: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c'è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni».

L'obiettivo nel mirino del leader dem è chiaro: tutti coloro che, in queste settimane, hanno messo in discussione non solo la sua «poltrona», ma anche la sua linea («O Conte o morte», «Alleanza strategica con i Cinque stelle»). Per il 13 marzo prossimo era infatti convocata un'Assemblea nazionale del Pd nella quale il segretario e - soprattutto - la sua linea rischiavano di finire sotto processo, con la minoranza interna che incalzava chiedendo un congresso nei tempi più ravvicinati possibile. Zingaretti ha prima cercato di evitare il congresso vero (con la leadership in discussione) proponendo invece un «congresso tematico» sul modello Pci. Ma la toppa era stata peggiore del buco, le contestazioni erano cresciute, il pressing sui possibili candidati alternativi (da Bonaccini a Nardella) pure, i sondaggi devastanti che davano il Pd ben al di sotto del risultato di Matteo Renzi nel 2018, mentre Conte si riciclava da «federatore del centrosinistra» a sostituto di Vito Crimi, erano piombati sul dibattito interno. L'Assemblea del 13 si annunciava quindi come uno pericoloso processo alla linea, che ha continuato ad aggrapparsi al feticcio Conte ter mentre era ormai pronto il governo Draghi. Ecco quindi come è maturata la mossa del cavallo, studiata - dicono nel Pd, da Zingaretti assieme all'irriducibile Goffredo Bettini, all'insaputa di tutti gli altri: annunciare le dimissioni, drammatizzare la scadenza del 13 marzo, spostare il dibattito dalla linea politica alla persona del segretario. E poi farsi clamorosamente riacclamare (grazie al 70% di voti «suoi» in assemblea) leader da un partito atterrito di restare senza organigramma in una fase così difficile, stanando i possibili traditori. Isolando la fronda della minoranza di Base riformista (Guerini e Lotti, i famigerati «ex renziani» contrari al patto di sangue con Grillo) e obbligando ad uscire allo scoperto chi, come Dario Franceschini e la sua corrente, era rimasti a guardare dalla finestra.

Non a caso, subito dopo il post di Zingaretti, dal Nazareno sono partiti messaggi a tappeto che invitavano le sedi locali del partito a «raccogliere le firme» contro le dimissioni del segretario, e a postare messaggi del tipo «resta con noi, nun ce lassa'» in risposta al suo annuncio Facebook. «Zingaretti vuole forzare la mano a Guerini e Franceschini e arrivare all'epurazione di chi non ci sta - denuncia un esponente della minoranza - ma così provoca solo un ulteriore logoramento della già scarsa credibilità del Pd, e solo per tenere in piedi la sua segreteria e il patto con Grillo». Con l'obiettivo, si spiega, di restare in sella fino al momento in cui si dovranno fare le liste elettorali, tagliando fuori tutti coloro che non si sono allineati.

Non a caso arriva il sigillo grillino sull'operazione, con la notizia di una telefonata tra Zingaretti e Conte che «ha rimarcato sostegno e stima» per il segretario dem di cui «ha imparato a apprezzare le qualità umane e la lealtà». Un'investitura in piena regola, da parte dell'ex premier ora aspirante segretario del partito grillino, o quel che ne rimane.

Dal corpaccione Pd, come contavano Bettini e Zingaretti, parte intanto il coro di chi - mentre dal Nazareno si giura e spergiura che stavolta fa sul serio e vuole andarsene - invita il segretario a ripensarci. «Il gesto di Zingaretti impone a tutti di accantonare ogni conflittualità, ricomponendo l'unità del partito attorno alla sua guida» twitta Franceschini.

Il segnale che Zingaretti non ha più nulla da temere: resterà segretario, come vuole, e in cambio dovrà pagare pegno quando si tratterà di comporre le liste elettorali. Grazie al taglio dei parlamentari, gli eletti dem saranno (ben che vada) molto meno della metà di ora: l'occasione d'oro, pensano Bettini e i suoi, per far piazza pulita di tutti coloro che non si sono allineati.

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