Piange Kharima el Mahroug, che quando è iniziata questa storia era una vagabonda di diciassette anni, e ora è una signora di trenta. Trattiene a fatica l'emozione Federico Cecconi, che quando ha preso la difesa di Silvio Berlusconi non aveva un capello bianco. Sono immagini che raccontano l'inverosimile arco di tempo che è passato prima che il «caso Ruby» si affossasse definitivamente, dopo avere affossato un governo, e avere fatto ridere dell'Italia mezzo mondo.
La sentenza arriva dopo due ore appena di camera di consiglio. Per i giudici della Settima sezione del tribunale, presieduta da Marco Tremolada, basta poco per tirare le fila. Escono con una assoluzione di massa. Ventinove imputati, ventinove innocenti. Tremolada li snocciola in ordine alfabetico, quello di Silvio Berlusconi è al quarto posto, quello di Kharima al decimo. «Il fatto non sussiste». Non ci fu corruzione in atti giudiziari, non ci furono false testimonianze nel primo processo Ruby, quello che ormai otto anni fa finì con l'assoluzione di Berlusconi dall'accusa di prostituzione minorile. E non ci furono per il semplice motivo che nessuna di quelle testimonianze era davvero tale. Le ragazze che animavano le feste di Arcore vennero costrette a parlare illegalmente dagli inquirenti milanesi, che in realtà erano già al lavoro per incriminarle, e per dipingerle come «schiave sessuali» del «sultano»: come loro e Berlusconi sono poi state definite nell'aula del processo che ieri finisce in nulla.
I pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio avevano chiesto sei anni di carcere per Berlusconi, cinque per Kharima, e poi giù a scendere per ventotto dei ventinove imputati. Per la Procura di Milano è una sconfitta che segna la fine di un'epoca. Per la prima volta dal 1994, gli eredi del pool Mani Pulite non hanno più il Cavaliere sul loro banco degli imputati.
Certo, esiste ancora la possibilità dell'appello. La Siciliano evita però di fare proclami, «aspetteremo le motivazioni». E presto si capisce il perché della cautela. Le motivazioni della sentenza saranno depositate solo tra tre mesi. Ma meno di un'ora dopo la lettura del verdetto, con una mossa del tutto inedita i vertici del tribunale di Milano diramano una nota per spiegare come si è arrivati alla sentenza. È una mossa che tiene conto dell'impatto che l'assoluzione di massa è destinata ad avere, che cerca di smussare preventivamente le polemiche. Per farlo indica con chiarezza granitica gli elementi che impedivano di arrivare a una condanna di anche solo un imputato.
È la nota a spiegare come i famosi verbali che Berlusconi era accusato di avere condizionato o comprato non erano testimonianze, perché la Procura stava già indagando su di loro, senza garanzie e senza iscrizioni. «Gli indizi non equivoci a loro carico - si legge - risultavano dagli atti in cui le stesse sono state escusse come testimoni». Il tema dei soldi che ricevettero poi da Berlusconi, della loro natura lecita o illecita, non viene neanche affrontato dal tribunale perché a quel punto diventa irrilevante. Se non erano testimoni non esiste la falsa testimonianza e neppure la corruzione giudiziaria. E per affermarlo i vertici del tribunale richiamano una sentenza che nessun ricorso potrà facilmente aggirare, firmata dalle Sezioni unite della Cassazione. Una sentenza che ha valore di legge. Non un cavillo, ma la base stessa del diritto.
Ma ci sono voluti anni ed anni, e c'è chi non ha fatto in tempo a invecchiare: come Nicolò Ghedini, che dell'ultima battaglia in difesa di Berlusconi fu il protagonista e che porta in buona parte il merito della vittoria.
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