Di certo quel brano non è finito per caso nella playlist ascoltata in Piazza del Popolo ieri a Roma. Un giudice di Fabrizio De André è una «parabola» sull'invidia che sviluppa rancore e poi si sfoga in vendetta, vendetta purchessia.
È la storia - mutuata dall'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (prima edizione nel 1915) - di una persona derisa per la piccola statura che, a furia di studi e sacrifici, diventa giudice e si vendica delle cattiverie subite. De André l'ha aggiornata e colorita per il disco (capolavoro) Non al denaro non all'amore né al cielo del 1971, meraviglioso ritratto di archetipi umani che hanno fatto i conti con l'invidia o con l'alienazione della scienza. Tutti i personaggi della Spoon River di De André non hanno inclinazioni ideologiche o, tantomeno, politiche, a dimostrazione di una libertà anarchica che slega questo cantautore da ogni appartenenza o bandiera di partito. Il suo giudice, che si trova «adulto senza esser cresciuto», studia «nelle notti insonni vegliate al lume del rancore» finché raggiunge il suo obiettivo e «allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra mi diceva Vostro Onore e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio». La vendetta come scopo di vita. Il giudice scardina il principio dell'imparzialità e manda sul patibolo innocenti che sono colpevoli soltanto per lui. Nell'Antologia di Masters il giudice si chiama Selah Lively e vive nell'immaginario paese di Spoon River.
Nella canzone di De André il personaggio diventa impersonale, non ha nome. In sostanza è un paradigma e perciò sfugge alla cronaca diventando ancor più il simbolo, per sempre attuale, della deriva professionale incatenata all'invidia sociale.
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