Una sorta di interpretazione autentica della norma che prende il suo nome. Paola Severino ora spiega che la legge Severino non può portare alla decadenza automatica del parlamentare condannato, ma anzi lascia un certo margine di manovra al Parlamento. Ma come? Ci avevano spiegato che il destino di Berlusconi era segnato e il Senato avrebbe dovuto solo mettere il timbro, come un passacarte, sul verdetto della Cassazione. Ma non è così, e dopo dieci lunghi anni carichi di silenzio, l'ex ministro della Giustizia svela quel che accadde in Consiglio dei ministri nel 2012 a proposito del decreto legislativo 235, quello appunto utilizzato per esibire il cartellino rosso in faccia al Cavaliere.
«Fu grazie alla straordinaria capacità di Antonio Catricalà - svela l'avvocato celebrando alla Luiss proprio il grande giurista scomparso lo scorso anno - che il decreto legislativo» fu modificato in extremis, così da evitare un «eccessivo automatismo».
Parole pesanti e sorprendenti perché Forza Italia e il centrodestra sollevarono il tema dopo la condanna del Cavaliere, ma l'asse Cinque stelle-Pd fu irremovibile: il Senato non poteva far altro che dare corso a quel provvedimento.
A quanto pare la questione era più sottile e Catricalà l'aveva colta in pieno, ventilando il cambio in corsa di una parola nel corso di quel Consiglio dei ministri: «Il suggerimento che subito accolsi riconosceva al Parlamento il pieno potere di decidere sulla decadenza o meno di un suo membro. Risultato che ottenemmo attraverso la modifica dell'espressione dichiarazione in deliberazione. Fu proprio in virtù di questo cambiamento che la norma è riuscita a superare in tante occasioni il vaglio della Corte costituzionale e quello della Corte europea dei diritti dell'uomo».
Severino non aveva mai chiarito questo punto esplosivo e nemmeno era mai emersa quella staffetta di vocaboli nel testo. E però questo modifica la prospettiva di quel voto e di quella norma: se così stanno le cose non si capisce perché l'anno dopo, nel 2013, con la bagarre sul Cavaliere, non si sia ricorso al voto segreto. «Io posi la questione in aula - racconta il senatore di Forza Italia Giacomo Caliendo, ex magistrato - insistendo per il voto palese sulla decadenza, ma la sinistra e i grillini ripetevano che non c'era margine di interpretazione e dunque si doveva votare a carte scoperte. Il presidente Grasso invece di decidere passò il cerino alla giunta per il regolamento che a maggioranza optò per il voto palese, chiarendo che i senatori erano chiamati a un atto dovuto e nulla più. Così, forzando la prassi, l'aula decise la cacciata di Berlusconi a scrutinio palese, infischiandosene di tutte le questioni che avevo sollevato: dalla retroattività del decreto alla richiesta di chiarimenti alla Corte europea».
Come mai l'ex ministro parla oggi? Chissà, anche se all'orizzonte c'è un referendum proprio su quella legge. «La norma - aggiunge lei - ha dato al Parlamento un pieno potere di valutazione» di cui però fino ad oggi il Parlamento non aveva consapevolezza.
E questo «ha consentito - è la conclusione - di escludere la decadenza del senatore Minzolini», oggi direttore del Giornale, «diversamente da quanto era accaduto con Berlusconi». Qui, di nuovo, qualcosa non quadra perché l'espulsione di Minzolini, a voto ancora una volta palese, fu bocciata per la rivolta dei garantisti del Pd. La lettura corretta della Severino arriva solo ora.
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