Lo Sgarbi esordiente a 93 anni: "Ho già in testa un altro libro"

Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio: "Racconterò il litigio di Bassani e Vancini per “Il giardino dei Finzi-Contini” e i diritti sul film. Dimentichi di che razza sono, disse lo scrittore al regista"

Lo Sgarbi esordiente a 93 anni: "Ho già in testa un altro libro"

Un viaggio a Ro, dove le uniche cose belle da vedere sono la famiglia Sgarbi, la farmacia Sgarbi e l'annessa casa Cavallini Sgarbi intasata da 3.900 opere d'arte, aiuta a capire meglio di un trattato l'universo sgarbiano. Se poi ad accoglierti trovi Elisabetta, scrittrice, regista e direttore editoriale della Bompiani, secondogenita di Giuseppe Sgarbi e Rina Cavallini, sorella di Vittorio, figlia devota che nei fine settimana torna al paesello per curare gli anziani genitori, l'agnizione è plenaria. «Chi scatta le foto? Dentro non va bene! Facciamole fuori in giardino. Mia madre non deve essere ripresa! Qui c'è troppo sole? E allora facciamole dentro 'ste foto. No! Dentro, mio padre non vuole. Spostiamo 'sta cazzo di sedia! Va bene qui? Qui c'è ombra. Dai! Su, papà! Caffè? Bicchiere d'acqua? Niente! Andate pure avanti. Ma quanto dura 'sta intervista? È quasi ora di mangiare! Adesso che fa, torna a Milano? Mi raccomando, lasci perdere il gossip! Arrivederci». In sintesi, una kapò. Magari dipende solo dal fatto che nella ferrarese Ro - con Lu (Alessandria), Ne (Genova) e Re (Verbania) il Comune più corto d'Italia - la sbrigatività ha a che fare con la genetica.

Per Vittorio, oggi assente, parla la strabiliante collezione privata, arricchita da qualche pezzo contemporaneo che non ti aspetteresti di trovare incorniciato: fotocopie di suoi articoli, pagine del Giornale, persino una pergamena in caratteri gotici con foto di «Sua Santità Francesco» che «imparte di cuore l'implorata benedizione apostolica» ai coniugi e ai loro due figlioli.

Ma la vera scoperta è lui, Giuseppe detto Nino, farmacista («ho cominciato quasi trentenne con la penicillina da poco importata in Italia e ho smesso nel 2012 con il Tavor»), l'«altro» Sgarbi, quello che non t'immaginavi, mansueto, accomodante, rimasto ascoso per ben 92 anni. Giunto ai 93, cioè a un'età in cui i pur longevi Indro Montanelli, Mario Soldati, Fernanda Pivano e Tonino Guerra erano già morti da un anno, ha esordito come scrittore con Lungo l'argine del tempo, edito da Skira e arricchito da due postfazioni dei figli, libro di ricordi che ha il ritmo del romanzo. «“La memoria è come un albero: può perdere le foglie, ma non perde mai le radici”, diceva mia nonna Angela». Ripetuto da questa vecchia quercia dritta e alta, mentre tutt'intorno friniscono le cicale, suona più vero. «Quanto misuro? Non me lo ricordo. Uno e 80, credo». Secondo me è 1 metro e 85, come si conviene all'ex guastatore di fanteria sul fronte greco, tornato a casa da sottotenente dopo l'8 settembre 1943, oggi primo capitano: «Mi hanno promosso. Ma non posso diventare maggiore se non mi richiamano».

Nino Sgarbi sostiene di ritrovarsi nella stessa condizione di nonna Angela: «Da sei mesi perdo le foglie. Ricordo con nitore gli avvenimenti del passato e dimentico il nome del mio paese d'origine che le ho detto dieci minuti fa». Villafora di Badia Polesine. «Ah sì, Villafora. Ci era nata anche mia madre Clementina, figlia di un latifondista. Aveva 14 anni meno di mio padre Vittorio, cresciuto in casa dei conti Masi, a Stienta. Si conobbero durante la Grande guerra. Lui era militare, addetto alla requisizione del grano. Lei gli portò un campione di frumento. Galeotto fu il chicco. Il 14 febbraio 1920, San Valentino, si sposarono. Era un uomo romantico, mio padre».

In realtà la memoria recente del vegliardo non assomiglia affatto agli alberi d'autunno. Per esempio, il nostro si ricorda benissimo della canagliata che la giuria presieduta da Monica Guerritore ha perpetrato contro il suo libro, negandogli il premio Campiello Opera Prima 2014. Solo che le polemiche non lo sfiorano. E questo nonostante Lungo l'argine del tempo sia stato escluso anche dalla cinquina del concorso letterario veneziano, piazzandosi al sesto posto. Pare che Mauro Corona avesse promesso a Vittorio Sgarbi il proprio ritiro per far posto all'esordiente. Ma poi lo scaltro cadorino con la bandana ci ha ripensato.

Ci teneva al Campiello?

«Non mi aspettavo nulla, neppure che una signora ieri venisse apposta fin qui da Reggio Emilia a farsi autografare la copia. Non credevo che la mia storia potesse interessare».

A Pontremoli hanno rimediato attribuendole il premio Bancarella Opera Prima.

«È andato a ritirarlo Vittorio, io non me la sentivo. Sa che cosa mi dispiace? Che al Campiello non abbiano ricordato Toni Cibotto. L'ha fondato lui, quel premio. Che pena! Vive chiuso nella sua casa di Rovigo, dimenticato da tutti, in preda all'Alzheimer. È un caro amico. Veniva spesso qui con lo scrittore Giorgio Bassani, mio compagno di tennis, che alla fine delle partite mi consigliava, con molto tatto, di prendere lezioni da un buon insegnante. Un modo per dirmi che ero una schiappa. Una volta assistetti a un alterco fra Bassani e il regista ferrarese Florestano Vancini, che lo rimproverava di non fargli girare Il giardino dei Finzi-Contini per una faccenda di diritti. “Tutto dipende dall'importo. Tu dimentichi di che razza sono”, gli chiuse la bocca Bassani. Ecco, magari queste cose le racconterò nel mio secondo libro».

Attendiamo impazienti.

«Eh, ma non ho molta voglia di scriverlo. Devo sentire che cosa mi consigliano Vittorio ed Elisabetta».

Mi parli un po' di loro.

«Elisabetta è una comandante nata, come avrà capito. Vittorio l'ho sempre visto leggere fin da bambino. La mattina presto lo trovavo sull'uscio con un libro in mano. Un mio amico un giorno gli chiese: “Che cos'è quello?”. “L'ultimo volume della Bur”, gli rispose: aveva già finito tutti i 900 e passa titoli della collana. Al liceo i temi di Vittorio venivano mandati in lettura nelle altre classi, tanto erano belli. Tutto ciò che ha guadagnato finora l'ha speso in opere d'arte».

Perché nel 1962 lo mise in collegio dai salesiani a Este? «Due anni di galera», li ha definiti Vittorio.

«Ancora me lo rimprovera, dice che è una delle cose peggiori che gli ho fatto. Mia moglie era incinta e non riusciva a controllarlo. Troppo irrequieto».

Mi ha detto che lo obbligava a «orribili gite domenicali» per andare a mangiare il pesce a Fano o ad Ancona.

«Ad Ancona ho vissuto due anni, la amo. Lei sa che cosa sono i garagoi?».

No.

«Molluschi di mare. Deliziosi. Si fanno bolliti e si succhiano dal loro guscio,dopo averli sbroccati con le tenaglie, cioè privati delle punte taglienti. La Rina a fine pranzo aveva le labbra screpolate».

È vero che a 6 anni tutte le donne che entravano in farmacia sbaciucchiavano Vittorio, tanto che la sera sua moglie lo disinfettava con l'alcol?

«Sì, ma lui fuggiva ostendendo i palmi e urlando: “Mani pulite!”. Un precursore».

In fatto di donne mi ha confidato: «Sono allievo di mio padre. Quando non poteva lui, mi sacrificavo io».

«E io sono figlio di suo nonno, il quale una volta accarezzò le mani perfino a due giovani suore che s'erano presentate al mulino a chiedere un'offerta per i poveri. Prim'ancora di sposarsi, aveva già fatto una figlia con una delle donne più belle di Stienta: due tette grandi così».

Anche lei, come suo figlio, simpatizza per Silvio Berlusconi?

«Non mi ricordo nemmeno se ho votato. L'ultima volta no di sicuro. Alle prime elezioni comunali nel dopoguerra, a Stienta mancava un candidato monarchico: indicarono me e fui eletto. Non so come, visto che alle Zampine, una frazione, c'era la sezione comunista più granitica d'Italia. Arrivarono a uccidere un carabiniere che era andato lì per eseguire un arresto. Durante l'occupazione tedesca, scalpellarono via tutti i numeri civici delle case per disorientare il nemico. Quando i seguaci del Duce tenevano un comizio al teatro Cazzoli, un militante delle Zampine correva a riferire ai caporioni rossi riuniti all'osteria, i quali lo istruivano su come replicare ai fascisti».

Da chi ha preso tanta loquacità suo figlio?

«Da mio padre Vittorio. Era un affabulatore nato. Parlava in continuazione, dall'alba fino alle 2 di notte, se c'era qualcuno ad ascoltarlo. Infatti morì di cancro alla gola».

Ma quando in televisione profferisce parolacce e urla «capra, capra, capra» a un interlocutore, lei cosa prova?

«Non sono contento. Fa male a comportarsi così, gliel'ho detto».

In che anno s'è sposato, dottor Sgarbi?

«Nel 1950, dopo esserci laureati insieme in farmacia. Lei prese 110, io 90. Non ricordo nemmeno l'argomento della tesi. Me la regalarono alcuni amici, professori di chimica, e io mi limitai a leggerla».

Che cosa trovò di speciale in Rina?

«La bellezza: era la più concupita di Ferrara. E la prontezza nell'apprendere».

Certo che di donne ne ha avute: prima Francesca dal bacio divorante, poi l'insaziabile ragazza che la costringeva a fare l'amore per intere giornate, poi Delia sposata con un console e madre di due figli, poi l'insegnante d'inglese bergamasca...

«Non ero sposato. Quella di Bergamo la lasciai per fidanzarmi con Rina».

Ha tradito spesso sua moglie?

«Scriva “mai”, è meglio. Non nego che di donne che mi chiedevano di andare a Ferrara con loro ne ho incontrate parecchie».

Andare a Ferrara?

«Una perifrasi che si usava allora per non dire “andare a letto”».

Lei è geloso?

«Non ho avuto motivo per esserlo. Però una volta, da morosi, mollai a Rina uno schiaffo perché si truccava per andare al lavoro nella farmacia Fides di Ferrara».

E non è gelosia, questa?

«Ma io le avevo chiesto di non farlo».

«A mia moglie Rina, che amo come allora», si legge nell'esergo del libro. Può esserci amore senza fedeltà?

«Domanda difficile. Io penso di sì, che si possa tradire pur continuando ad amare. L'adulterio è solo un capriccio».

E se il capriccio se lo toglie sua moglie, lei è contento?

«Mica tanto».

Le manca la vicinanza dei nipotini? Vittorio mi ha confessato di avere «tre figli sparsi per il mondo».

«No, affatto, perché non c'è mai stato rapporto con loro. Uno, Carlo, è venuto qui, voleva non ricordo che cosa, mia moglie l'ha trattato duramente e non s'è più rivisto. Un'altra nipote, figlia di una jugoslava, credo, ci ha tenuto a conoscerci. Siamo andati a cena con Vittorio. Era molto bella. Mi ha dato un bacio».

Che cosa le tiene più compagnia?

«La lettura. Purtroppo sto perdendo la vista. Mi tocca usare una lente d'ingrandimento enorme, ma non è facile leggere il Caravaggio di Vittorio con quella. E poi la poesia. Il mio preferito è Giacomo Leopardi. Considero il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia un capolavoro assoluto: “Dimmi, o luna: a che vale / al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi? dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?”».

Che cosa rimpiange del passato?

«Le sembrerà strano per uno che è stato grande cacciatore: mi mancano la pesca e il Po. Ho cresciuto Elisabetta con i branzini pescati nel Canale dei Cuori, a Cavarzere. E poi rimpiango i crostoli (dolci di carnevale, ndr); le tombole serali con i chicchi di granoturco sulle cartelle; la mia bici Olympia che costava 350 lire, una fortuna; la polenta cucinata dalla mamma, che veniva tagliata con il filo di refe; la granita della Tide al gusto di ciliegia, ma che non era ciliegia, un sapore che non ho mai più ritrovato».

Qual è stato il dolore più grande?

«La perdita dei miei genitori. Prima di morire, mio padre chiese a un contadino di caricarlo su una carriola e di portarlo a vedere per l'ultima volta i suoi campi. Tutte le sere prego per loro».

Pensa che li ritroverà, un giorno?

«Credo da cristiano, ma non saprei dire se la mia sia vera fede oppure no. Qualcosa dopo questa vita dev'esserci. Vorrei assomigliare al mio amico Casimiro Ravagnani, la persona migliore che io abbia conosciuto fin dai tempi dell'asilo. Durante la guerra aveva tirato una bomba su un covo tedesco ed era angosciato dall'idea di aver ucciso qualcuno. Per cui andò a confessarsi da padre Pio. Tornò trasfigurato. Il santo frate di Pietrelcina, al quale Casimiro non aveva rivelato né la sua identità né la sua provenienza, gli disse: “Non si preoccupi più. Torni a Badia Polesine, dove da domani diventerà primo medico del Comune”. Appena rincasato, fu convocato dal sindaco che gli consegnò il decreto di nomina».

Ha avuto tutto dalla vita: una bella moglie, due figli fenomenali, un ottimo lavoro, una casa-museo, la salute e ora il successo letterario. Dovrà scontare un po' di purgatorio, mi sa.

«Non vedo perché. Ho avuto tutto, è vero, ma non ho cercato nulla. Non con sfrenatezza, almeno».

(715. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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