Si dissolve la mafia ma non l'antimafia: il mostro che smista potere e poltrone

Ormai è diventata soltanto criminalità organizzata. Restano però agenzie e pastoie burocratiche che imbrigliano le aziende che partecipano agli appalti

Si dissolve la mafia ma non l'antimafia: il mostro che smista potere e poltrone

Mafia ormai è un nome comune, va scritto minuscolo: le mafie sono tante e nessuna, quella siciliana si chiamava Cosa Nostra mentre nelle province di Agrigento, Caltanissetta e Ragusa c'era la Stidda. Mafia, al limite, era quella statunitense, poi, da noi, c'è la Camorra campana, la Ndrangheta calabrese, c'era Sacra corona unita pugliese (ormai disintegrata) e dai primi Anni Novanta, più al centronord, ci sono anche la albanese, la rumena bulgara, la nigeriana, la maghrebina, la colombiana la cinese e la russa. Chiamatela criminalità organizzata.

Giovanni Falcone, nel 1992, rilasciò un'intervista televisiva, e alla domanda «Mi può parlare della mafia più potente del mondo?» deluse la sua interlocutrice: «Mi dispiace signorina, ma purtroppo siamo solamente settimi». Poi spiegò: «Vede, il mistero è che la nostra mafia è l'unica che gode di letteratura». Come a dire che, in effetti, da Tomasi da Lampedusa a Mario Puzo sino alla Piovra, non ci siamo risparmiati nulla. Ma se eravamo settimi nel già terribile 1992, figurarsi che cosa Cosa Nostra possa essere oggi, col capomafia di Brancaccio, intercettato dall'Antimafia, che parla di come sono ridotti: «Siamo troppo bassi, siamo a terra... Eravamo prima noi, oggi il businnes lo fanno altri ... noi siamo gli zingari».

Pure razzisti. La vecchia mafia era «un'esasperazione di valori e di comportamenti tipicamente siciliani» (parole sempre di Falcone) ma aveva archiviato la lupara e adeguato i valori arcaici alle esigenze del presente, tanto da confondersi con la società civile. I figli del capi-cosca non ereditavano il prestigio mafioso, ma soldi.

Detto questo, che cosa rimane? Con una battuta, rimane una foglia di fico per giustificare l'esistenza del magniloquente apparato Antimafia. Negli anni Ottanta si diceva «la mafia non esiste» e invece esisteva e ammazzava, ora invece si dice «la mafia esiste» e invece non esiste più, è un'altra cosa, non ammazza e da decenni: c'è una criminalità di tutt'altro tenore e di rango inferiore come aveva preventivato ancora Falcone: «La mafia non affatto invincibile, come tutti i fatti umani ha avuto un inizio e avrà anche una fine». Ma non è finita ieri, è finita da tempo. È morta e seppellita la mafia corleonese, distrutta sin dagli anni Novanta nella sua struttura gerarchico-militare, coi capi tutti sottoterra o in galera, i picciotti pure, senza più, da allora, stragi e omicidi seriali né una vera presa sul territorio alternativa allo Stato. Esiste invece l'Antimafia, dedita perlopiù a distribuire potere e poltrone, ed esistono magistrati seri e silenziosi che combattono la criminalità residua o riciclata: forse basterebbero loro. Già la Relazione della Dna del 2013 parlava di Messina Denaro in «termini simbolici», nulla più che «capo delle famiglie mafiose del trapanese». Alessandro Pansa, capo della Polizia sino al 2016, ascoltato dalla Commissione Antimafia, disse che Messina Denaro non era il capo di Cosa Nostra e che era interessato solo al suo arricchimento personale. A dirlo fu persino Totò Riina intercettato in carcere: ne parlò male, disse che si faceva i fatti suoi. Scrisse allora Repubblica il 27 marzo 2014: «È la verità o il vecchio Riina vuole mischiare ancora una volta le carte?». Era la verità: Cosa Nostra fu sconfitta negli anni Novanta. Il frutto piu prezioso della permanenza in Sicilia del procuratore Giancarlo Caselli furono le catture di importanti boss latitanti e degli autori materiali della strage di Capaci, oltre al numero impressionante di ergastoli inflitti dal 1993 alle soglie del nuovo millennio più i circa 1500 criminali che divennero collaboratori di giustizia anche se e purtroppo sollevarono seri problemi circa la loro credibilità. Ma poi, uccisa Cosa Nostra, l'Antimafia fallì i processi sul cosiddetto terzo livello: Andreotti, Carnevale, gli eroi dei Ros dei Carabinieri, il tenente Canale che fu intimo di Paolo Borsellino, poi i religiosi Frittitta e Cassisa, i penalisti Musotto e Scalone, il ministro Mannino, tanti altri, senza contare gli infiniti tentativi di processare Silvio Berlusconi.

Da lì in poi l'antimafia, così come era stata disegnata, non servì più a granché: solo a mantenere delle pastoie burocratiche che imbrigliano tutt'ora il Paese. Il certificato richiesto alle aziende che partecipano a un appalto pubblico è un inferno. Le «misure di prevenzione» possono confiscare aziende e immobili assai prima di una sentenza, la quale, come sappiamo, non arriva mai: basta la «pericolosità sociale» per mandare in malora patrimoni e imprese. Anche quel mostro che si chiama Agenzia nazionale per i beni confiscati (a Reggio Calabria) è perlopiù un parcheggio per personale statale senza una spiccata vocazione. Basta sfogliare i giornali per apprendere di imprenditori (assolti) cui l'antimafia frattanto ha ucciso tutto: le interdizioni l'hanno escluso dalle commesse pubbliche, i fidi bancari sono stati bloccati, i lavoratori se ne sono andati, per non parlare della reputazione.

Le procure antimafia sono un sistema che non si è ridimensionato né adeguato alla realtà e che rimane mastodontico a dispetto della sconfitta storica di Cosa Nostra, della decapitazione dei vertici di certa Camorra, del dissolvimento della Sacra Corona Unita. È un sistema che c'era e che andava mantenuto, anche se, per arrestare gli «zingari» rimasti a Palermo, intanto basta la capacità e il coraggio di magistrati molto normali.

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