In uno dei tanti corridoi di Palazzo Madama, il senatore Guido Viceconte, già coordinatore di Forza Italia in Puglia ai tempi d'oro e ora tra i superstiti di Alfano, si lascia andare ad una vera e propria confessione. «Il nostro cuore - si confida - è con Berlusconi. Ma lui ci snobba. Quelli di Forza Italia hanno accettato i diktat di Salvini, della Meloni, ci trattano come se avessimo la rogna. Saremo costretti ad andare con Renzi. E se ci chiederà la prova d'amore di votare lo ius soli, lo voteremo. In fondo all'Italia cosa importa dello ius soli...».
Con una buona dose di pragmatismo, ma il vocabolo più appropriato sarebbe cinismo, Viceconte è uno dei tanti che si appresta a salire sull'ottovolante di Matteo Renzi, sulle montagne russe del Luna Park in cui si stanno trasformando gli ultimi mesi di questa legislatura. Del resto il leader del Pd aveva promesso un Vietnam se non ci fossero state le elezioni a giugno. Ed è stato di parola. Si è messo al centro della scena e ha cominciato a sparare i suoi fuochi d'artificio: ha approvato la legge elettorale insieme a Salvini e Berlusconi a colpi di fiducia; si è mosso contro la riconferma di Ignazio Visco a governatore di Bankitalia, sempre con Salvini e con i grillini; e, all'indomani dell'approvazione della legge di bilancio a metà novembre, si prepara al botto finale, un altro voto di fiducia per approvare lo ius soli, insieme a tutta la sinistra. «È l'ultimo passaggio - spiega il coordinatore del Pd, Lorenzo Guerini - della strategia di avvicinamento alle elezioni. Ci sarà un solo voto... di fiducia. Questione di un pomeriggio. Un colpo solo per verificare se ci può essere una coalizione di sinistra con l'apporto di un pezzo di centro. Già, sullo ius soli, Renzi verificherà chi vuole davvero far parte della sua coalizione». Più o meno il discorso che fa, anche la senatrice Cirinnà, già passionaria delle coppie di fatto. «Sulla fiducia tecnica allo ius soli - racconta - c'è già il si di Bersani e di Sel. E probabilmente anche di Alfano e Verdini».
Appunto, tutti sull'ottovolante di Renzi, pronti ad affrontare evoluzioni ad alto rischio. Ma in fondo l'essenza del renzismo è proprio questa, un continuo rilancio, utilizzando alleanze di comodo che possono durare lo spazio di una settimana.
Il «caso Bankitalia» è esemplare. Neppure dieci giorni fa Eugenio Scalfari, maître à penser di una certa sinistra e fondatore de La Repubblica, dopo una lunga serie di colloqui settimanali, andati avanti per mesi, aveva fatto un'apertura di credito al Renzi della fase Zen. Addirittura era riuscito ad imporre quasi un cambio di linea editoriale al suo giornale. Ieri, invece, dopo l'attacco a Visco, Scalfari, dando per scontata a mo' di sfida la riconferma di Visco, ha consigliato a Renzi addirittura la visita da «un neurologo». Eppure quello che a tutti è sembrato un infortunio è in linea con la logica renziana. Questa mossa, infatti, il segretario del Pd la covava da mesi. «Se questi pensano di crocifiggermi sulle banche in campagna elettorale - era un suo leit motiv - hanno sbagliato di grosso. Sarò io il grande accusatore».
E così è stato. Senza pensarci due volte il segretario del Pd ha messo, con una mozione in Parlamento, una zeppa nell'ingranaggio che coinvolgendo Bce, Quirinale e Palazzo Chigi, avrebbe dovuto garantire la riconferma di Visco. Una zeppa di non poco conto se si tiene conto della procedura di nomina del governatore. Se fino a Antonio Fazio era, infatti, il Consiglio superiore di Bankitalia a indicare una rosa di nomi su cui il capo dello Stato sceglieva il governatore, con la legge del 2005 il potere di proposta è passato nelle mani del governo: e può il presidente del consiglio chiedere la riconferma dell'attuale governatore senza tenere conto che il principale partito della sua coalizione e la maggioranza del Parlamento gli chiedono «discontinuità»?
In Italia tutto è possibile, ma a quel punto la responsabilità ricadrebbe tutta su di lui e sul Quirinale, che si accollerebbero anche il peso del giudizio positivo sull'operato di Bankitalia nel risiko bancario di questi anni, compresi i «buchi» nell'esercizio del ruolo vigilanza sui tanti scandali. Non si tratta di quisquilie. Tant'è che lo stesso Berlusconi, che pure vede nell'iniziativa del segretario del Pd un tentativo di opzionare il nome del successore di Visco, è il primo a dire che «certamente la Banca d'Italia non ha svolto quel controllo che ci si attendeva».
Era l'obiettivo che si prefiggeva Renzi, quando si è cimentato in questo triplo salto mortale. E la prima conseguenza è che anche se la riconferma di Visco resta l'ipotesi in pole position, c'è chi comincia ad esplorare scenari diversi. «Ad esempio, Visco potrebbe essere riconfermato - sussurra Linda Lanzillotta, vicepresidente del Senato - con l'impegno di dimettersi tra un anno». Un'idea di «mediazione» che potrebbe piacere a Gentiloni per salvare le apparenze, ma che non convince altri. Tramontata del tutto l'idea di un «esterno», sul tappeto resta anche lo schema di scuola, della «continuità nella discontinuità».
Se si sta alle cronache del passato il favorito dovrebbe essere Fabio Panetta, visto nelle ultime tornate è stato spesso un vicedirettore generale a succedere al governatore (ad esempio, Fazio a Ciampi e Visco a Draghi). Tantopiù che Panetta ha un ottimo rapporto proprio con Draghi. Unico neo, non piccolo, è che Panetta nell'attuale vertice di Bankitalia ha proprio la delega alla vigilanza bancaria, in poche parole è nell'occhio del ciclone. Così, il teorema, «discontinuità nella continuità» potrebbe esplicarsi in altro modo. «Noi non abbiamo un candidato - confida uno degli uomini ombra del segretario del Pd - per cui basterebbe garantire la continuità istituzionale, visto che non possiamo far finta che Bankitalia non abbia le sue responsabilità in quanto è successo in questi anni. Basterebbe promuovere l'attuale direttore generale, Salvatore Rossi».
Ma c'è un'insidia pericolosa che potrebbe far precipitare l'ottovolante di Renzi: il rottamatore ha sfidato l'establishment. «Renzi - riflette a voce alta un altro piddino, Nicola Latorre - rischia di pagare l'azzardo di oggi nel tempo. Quando vedi le uscite di Napolitano, Tremonti, Scalfari, la freddezza di Mattarella, ti accorgi si è messo contro l'establishment. E quelli te la faranno pagare. Ha infranto le regole. È come chi si siede a tavola in un circolo dell'aristocrazia inglese e non mangia con la bocca chiusa».
Sarà, ma nella testa del segretario del Pd quel mondo ha un'importanza relativa. Il personaggio persegue una strategia militare: ora che la legge elettorale gli ha dato in mano il potere di decidere le candidature e di disegnare a suo piacimento i gruppi parlamentari della prossima legislatura, non teme più nessuno. Il mondo di Napolitano, per Renzi, a questo punto, è già archiviato: il segnale più evidente è nel nervosismo crescente dello stesso Nap. Renzi, invece, pensa alla prossima mossa che, a molti, potrebbe apparire un altro azzardo: riconquistarsi un'immagine di sinistra sullo ius soli, al costo di mettersi contro più della metà del Paese.
«Noi ci giocheremo la partita dello ius soli al Senato - è la promessa del capogruppo dei deputati del Pd Rosati - al costo di andare sotto, ma non ci andremo». Appunto, rischio dopo rischio. Sull'ottovolante che Scalfari considera guidato da un pazzo.
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