«Ho portato mia figlia in Cina per dimostrare che il lavoro non è incompatibile con la maternità». Più che vederle le sentiamo arrivare, le obiezioni che si sollevano all'indirizzo di Giorgia Meloni. Le intuiamo ancor prima di andarle a leggere perché ormai sono prevedibili come un cruciverba facilitato. Narrano di privilegi e soldi e libertà.
Ed è chiaro che Gorgia Meloni è il comandante in capo, che in Cina ci arriva con un aereo di Stato, che ha un nutrito staff al seguito e che non è costretta a chiedere il permesso a nessuno per farsi accompagnare da Ginevra alla visita ufficiale dal premier Li Qiang. Ma è altrettanto vero che il gesto della premier è profondamente imparentato con il dna del suo elettorato ed è perfettamente coerente con la sua politica. Ginevra con le trecce che strizza gli occhi sotto al sole e tiene per mano sua mamma mentre saluta il primo ministro cinese sulla pista d'atterraggio, ricorda i figli dei commercianti che facevano i compiti nel retrobottega e andavano a tirare la gonna della madre perché gli desse retta sulle tabelline. E forse nel retro di quel retro c'era pure una nonna sistemata su qualche poltrona affaticata a sgranare fagioli nello scolapasta. Per quanto ufficiale e in mondovisione e fuori dall'ordinario, è una scena che ricalca il mondo dal quale viene Giorgia: la sua evoluzione trent'anni dopo. Quella della premier per le donne che lavorano non è una comprensione contrattuale, è un sentimento concreto. Ha visto lavorare sua madre e prima di lei la madre di sua madre: si è formata tra quella gente lì ed è a quella gente lì che ha sempre voluto parlare. Per questo, rilasciando un'intervista a Chi si è stupita tanto degli attacchi ricevuti per la trasferta famigliare (era già successo quando erano andate a Bali): «Il fatto che io sia arrivata con Ginevra in Cina, scendendo mano nella mano dall'aereo, ha fatto molto discutere. Non ne capisco la ragione, francamente... avrei dovuto lasciare mia figlia a casa, magari a casa di amici? ... Ma c'è di più, è anche una sfida culturale che riguarda tutte le donne: penso che, se io, che sono presidente del Consiglio, riesco a dimostrare che il mio incarico è compatibile con la maternità, allora non ci saranno più scuse per quelli che usano la maternità come pretesto per non far avanzare le donne sul posto di lavoro».
E a stupire la Meloni c'è la presunzione di chi ritiene di sapere cosa sia meglio per i figli degli altri, della sua nella fattispecie. Un sacco di affondi. Vuoti, esigenti e schizzinosi. Come se su una donna premier si potessero esercitare diritti impensabili su un presidente del Consiglio uomo (beh con qualche ragguardevole eccezione dalle parti di Arcore, ovviamente). Alla prima donna premier si può indicare come educare la propria figlia, quando lasciarla a casa, quando portarsela dietro, quando piantare il proprio compagno per cancellarsi le sue «imbarazzanti» tracce di dosso, perché cambiare il sarto o licenziare il parrucchiere. Le si può perfino dare della «stronza». E la si può criticare perché nemmeno immagina quale sia la vita di una lavoratrice media.
Come se una lavoratrice media volasse da Dubai alla Serbia agli Stati Uniti alla Turchia nell'arco di sei giorni o chiacchierasse con la sua bambina su un'auto blindata o dovesse avvisare del percorso che intende intraprendere per andare a trovare sua madre. La verità è che in troppi sono infastiditi dalla Meloni sia quando maneggia la causa delle donne, sia quando fa la donna. Basta non sentirli. Tanto non arrivano.
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