«Capirete che non mi metto a piangere», ha commentato Viktor Orbán. Come se ci fossero dubbi a riguardo. Probabilmente il primo ministro ungherese, rieletto lo scorso 8 aprile per il quarto mandato, avrà festeggiato alla notizia che la fondazione del miliardario e filantropo George Soros chiuderà i suoi uffici di Budapest per trasferirsi a Berlino nel corso dell'estate. Dalla Ong non confermano, ma parlano della necessità di tutelare «la sicurezza dello staff e l'integrità del lavoro». Il presidente Patrick Gaspard sarebbe però già volato di persona nella capitale ungherese per informare i circa 100 dipendenti della decisione.
La battaglia a distanza tra Orbán e Soros va avanti da tempo. Il casus belli che ora ha fatto precipitare la situazione ha un soprannome piuttosto esplicito: «Stop Soros». Si tratta della legge che sarà discussa dal parlamento ungherese la prossima settimana e che il governo si è impegnato a far passare che imporrebbe una tassa del 25% su tutte le donazioni straniere a organizzazioni non governative che supportano i migranti nel Paese. Proprio come la «Open Society Foundations» del filantropo ebreo statunitense di origini ungheresi, la terza organizzazione umanitaria al mondo per patrimonio (18 miliardi di dollari). Una scorciatoia particolarmente comoda per il leader della destra populista e conservatrice di Budapest, che in questo modo riuscirebbe a eliminare una buona parte dell'attività del nemico all'interno dei suoi confini nazionali.
La campagna elettorale che si è conclusa con la sua riconferma, Orbán l'ha giocata in larga misura demonizzando Soros e tutto ciò che il magnate rappresenta: progressismo, internazionalismo, battaglie per i diritti umani, l'istruzione e l'indipendenza della stampa. Una delle accuse più gettonate era che l'imprenditore 88enne puntasse a favorire l'immigrazione per distruggere l'identità cristiana della nazione. Una narrazione che ha fatto breccia nelle paure degli elettori, che hanno premiato il partito del premier magiaro, Fidesz, con quasi il 50% dei voti. E pensare che, se oggi Orbán è quello che è, lo deve anche a Soros, che finanziò la borsa di studio con cui il politico studiò a Oxford.
Il filantropo, a cui il governo ungherese ha anche ipotizzato di vietare l'ingresso nel Paese, a Budapest è presente non solo con la sua fondazione, nata nel 1984 e oggi diffusa in 120 Stati. Nella sua città natale Soros ha anche fondato l'Università dell'Europa centrale, frequentata da circa 1.500 studenti da tutto il mondo. L'anno scorso migliaia di persone si erano mobilitate per scongiurarne la chiusura, dato che un'altra legge voluta da Orbán le stava mettendo i bastoni tra le ruote. Il parlamento ungherese ha infatti votato per rendere irregolari e sanzionare le università straniere che non hanno una sede nel loro Paese di provenienza, proprio come la Ceu, formalmente statunitense. La questione resta ancora aperta, e in concomitanza della rielezione del premier, due settimane fa, studenti e docenti dell'ateneo si sono trovati di nuovo a manifestare per resistere alle pressioni governative.
Sulla probabile chiusura della fondazione di Soros a Budapest anche l'Unione europea rimane cauta. Si tratta di una decisione «privata» su cui «non abbiamo nulla da dire in questa fase», ha detto la portavoce della Commissione, Natasha Bertaud.
Nei confronti dell'Ungheria Bruxelles ha già avviato un procedimento di infrazione in merito alle norme contro le ong e contro l'Università dell'Europa centrale, ritenendole incompatibili con trattati, norme e valori comunitari. Si attende ora la pronuncia della Corte di giustizia Ue.
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