Spacciata per opera d'arte la statua sfregio che infanga Montanelli

Al Mudec la statua del giornalista con la bambina eritrea. Il Comune di Milano aveva condannato l'insulto

Spacciata per opera d'arte la statua sfregio che infanga Montanelli

L'arte non ne ha mai abbastanza: deve sempre allargare i propri confini. E anche l'ideologia: non è mai troppa. Così, un anno fa, a giugno, dopo che la statua di Indro Montanelli a Milano, sull'onda del movimento Black Lives Matter, per l'ennesima volta fu imbrattata di vernice rosa per denunciare il razzismo e il sessismo del giornalista che durante la guerra in Etiopia sposò una dodicenne, ci fu chi disse: «Non è sufficiente». Così Cristina Donati Mayer, che si definisce «artivista» - più attivista che artista in realtà, vista la superficialità del gesto e viste le precedenti opere antisalviniane - superò le barriere di protezione della statua e mise sulle ginocchia bronzee di Montanelli - «colonialista» e «stupratore» - un fantoccio nero raffigurante una bambina eritrea. Giustizia è fatta. Almeno così sembrò.

Ma anche la Giustizia non conosce limiti. E così, nel giorno del 15esimo anniversario della morte di Oriana Fallaci, al Mudec, il Museo delle Culture di Milano, viene inaugurata una mostra permanente, dal titolo Milano globale, che affronta temi complessi come le migrazioni e il colonialismo «per dare una maggiore consapevolezza di quello che è stato il passato e per costruire un futuro di dialogo». E per dialogare meglio con il passato e il futuro, nella sezione dedicata alla «Decolonizzazione» è esposta una riproduzione della statua di Montanelli (ancora più brutta dell'originale, se possibile) con in braccio il fantoccio della dodicenne eritrea. Titolo dell'opera: Il vecchio e la bambina. Al netto dell'insopportabile uso, politicamente molto scorretto, della parola «vecchio». Ora, gli aspetti della vicenda sono tre.

Il primo storico-culturale. Ma non staremo a ripetere cose già scritte tante volte sulla necessità di giudicare il passato non con i codici civili e morali dell'oggi, ma dell'epoca. Purtroppo è un concetto che, quando si hanno di fronte i fanatici della cancel culture, non passa. L'Economist, settimana scorsa, riflettendo su certe derive ideologiche metteva in guardia dalla «sinistra illiberale».

Il secondo è artistico. E se è vero che l'arte, come la satira, dev'essere libera, è anche vero che un'installazione-performance del genere è legittima e accettabile in un parco o sui muri (anche se già qui qualcuno avrà da ridire), un po' meno in un museo, dove si sceglie cosa ospitare e cosa no. E comunque resta la contraddizione di un'opera d'arte (la statua) che viene sfregiata, mentre lo sfregio diventa un'opera d'arte. È una sorta di upgrade della cancel culture: non solo si cancella una statua, ma si premia, esponendola in un museo, chi l'ha cancellata.

E il terzo è di ordine politico. L'artista-attivista fa il suo. È giusto. Ma perché il Mudec, un museo pubblico, del Comune di Milano, decide di istituzionalizzare un gesto così divisivo come lo sfregio a un giornalista che, toscano di nascita, ha fatto grande la storia della città? Per non dire dell'ipocrisia di un Comune che quando la statua fu contestata, deplorò il gesto - «Montanelli non si tocca!» - mentre oggi musealizza i contestatori (ma è più facile che resti il primo, con i suoi scritti, piuttosto che i secondi, con il loro livore).

E per il resto, se di Storia si parla, forse è il caso di ricordare che il tempo e la Memoria hanno già ricucito tutto.

Quando, nel 1952, Montanelli tornò in Etiopia per incontrare la ragazza - che si chiamava Destà - ormai diventata donna, fu da lei accolto con affetto. E sulle ginocchia del giornalista mise il proprio di figlio, avuto da un uomo della sua tribù. Lo aveva chiamato Indro.

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