Non ha alcuna intenzione di cedere, ma sa che entro le prossime 48 ore, si deciderà il suo futuro di premier, iniziato il 21 dicembre del 2011, quando la crisi economica aveva costretto la Spagna alla sudditanza verso i parametri della Troika. Lui, il grigio politico formatosi con caparbietà nelle file dei Popolari galiziani, aspettava dal 2004 il suo momento, rimandato per ben due volte, in sette anni dai progressisti di Zapatero.
Non era molto amato da José María Aznar, la grande eminenza della destra iberica, e non era conosciuto dagli spagnoli, ma in quel momento storico, Mariano Rajoy era il meno peggio tra tutti i politici cui affidare il Paese a rischio default. A distanza di sette anni, quando tutti davano le colpe ai Socialisti per quei 6 milioni di disoccupati (su un popolazione di 44 milioni) e per non avere protetto la Spagna dalla bufera finanziaria, ora è lui il presidente del Governo arrivato al capolinea, benché tutte le sue ragioni del mondo.
Come il collega socialista che lo ha preceduto, forse non riuscirà a portare a termine due mandati consecutivi. Il 2020 sembra troppo lontano, anche se Rajoy ripete che non vuole lasciare. «La mozione di sfiducia dei Socialisti (contro di lui, segretario del PP decimato dagli arresti del caso di corruzione Gürtel, ndr) è cattiva per la Spagna, perché va contro la stabilità del Paese e serve solo a Pedro Sánchez. Lui vuole diventare premier a qualunque costo, con l'appoggio di chiunque, compresi i partiti separatisti». Lo ripete da giorni, mentre intravede i lunghi coltelli dei Socialisti e il volta spalle degli ex alleati di Ciudadanos che, invece che salvarlo, chiedono a gran voce lo scioglimento delle Camera per andare al voto: per gli spagnoli sarebbe la terza volta in meno di due anni. «Per quanto dipende da me, tutte le legislature durano quattro anni, sciogliere le Camere è una mia esclusiva prerogativa». Così Rajoy risponde, a muso duro, agli arancioni di Albert Rivera, resuscitati dai sondaggi favorevoli e prossimo exploit politico, dopo le regionali in Catalogna, a livello nazionale, ma sicuramente contrari alla mozione di sfiducia che Sánchez sta febbrilmente legittimando tra le forze politiche al Congreso. Ieri, il Partito Nazionalista basco (PNV) gli ha detto di no. Mariano ripete all'emiciclo che lo vuole decaduto: «State creando l'instabilità che la Spagna», ora che ha ripreso a crescere il Pil «non può permettersi». E ora che lo scoglio dell'approvazione della manovra fiscale per il 2019 è passata, con l'appoggio determinante di Ciudadanos. Venerdì pomeriggio si sapranno le sorti di Rajoy.
Intanto, i nazionalisti catalani sono pronti a stappare lo champagne, se Mariano salta. E non sanno che, anche con l'eventuale apertura della loro causa a un governo socialista, creerà attorno a loro ulteriori gravi tensioni e dissensi, risvegliando le voglie indipendentiste dei baschi, dei navarri e dei galiziani.
E se si andasse alle urne prima del 2020, giungerebbero guai peggiori: i sondaggi danno un trittico finale di pareggio: Il PP, il PSOE e Ciudadanos tutti al venticinque per cento, quindi uno stallo politico in cui la chiave dell'alleanza sarà in mano a Rivera, che, al contrario, questa volta, punterà da solista alla Moncloa. E Podemos? Iglesias non riuscirà a ripetere i successi passati, avrà meno del 15%, un numero inutile per allearsi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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