Vista dall'alto del Colle del Gran San Bernardo, Roma è un'idea remota e alquanto sfumata. Tra ghiacciai in via di sparizione, cani San Bernardo messi in mostra come mascotte, frontiere inesistenti senza ombra di un doganiere e affascinanti ospizi per viandanti gestiti da un millennio dalla stessa congregazione di canonici agostiniani, l'idea che qualcuno possa mettersi a camminare da qui fino alla basilica di San Pietro sembra per lo meno peregrina. E invece è proprio da qui, a 2.472 metri, che parte la Via Francigena: un migliaio di chilometri divisi in 44/45 tappe che uniscono questo passo di confine con la Svizzera con la capitale della cristianità.
Chi oggi si mette in marcia, segue fedelmente un tracciato vecchio dieci secoli, quello percorso nel 990 da Sigerico, arcivescovo di Canterbury, che lasciò una cronaca scritta del suo itinerario verso la sede arcivescovile inglese. Era partito da Roma, dove si era recato per ricevere il pallio, il paramento liturgico riservato ai vescovi metropoliti, e il suo diario conservato al British Museum racconta con dovizia di particolari 1.600 chilometri percorsi in 79 giorni seguendo l'itinerario di uno dei tre grandi pellegrinaggi dell'epoca medievale, quello che porta alle tomba dell'apostolo Pietro.
Come accadde per il Camino di Santiago de Compostela, anche la Via Francigena cadde progressivamente nell'oblio, soppiantata dall'avvento delle carrozzabili e delle strade ferrate. Almeno fino a quando in anni recenti qualcuno non si è ricordato che anche l'Italia aveva il suo grande Cammino; così, faticosamente, nell'ultimo trentennio è iniziata la ripresa assai filologica dell'antico percorso, sperando di replicare il successo del Camino spagnolo che stabilmente naviga oltre i trecentomila pellegrini l'anno, di cui un decimo italiani.
A oggi sono decisamente pochi e avventurosi i camminatori che partono dall'Inghilterra, nonostante la Francigena sia entrata a far parte degli Itinerari Culturali del Consiglio d'Europa al pari del percorso spagnolo. Sono relativamente di più i viandanti che, reso omaggio alla statua di San Bernardo di Mentone rivolta verso la vallata che porta il suo nome, imboccano il sentiero che taglia i tornanti e scende lento verso Aosta, facendo una prima tappa dopo una quindicina di chilometri a Etroubles, dove si trova un ostello per pellegrini. Uno dei pochi in realtà. Perché una differenza fondamentale tra Santiago e la Francigena (oltre alla promozione gratuita di Paulo Coelho) è proprio questa: tanto in Spagna l'esperienza del cammino è sociale e comunitaria, tanto in Italia è ancora privata e alberghiera. Quell'immenso sistema di ospitalità gratuita o a contribuzione volontaria che tanto affascina chi si incammina verso la Galizia, dove i pellegrini con la conchiglia di Santiago sono ospitati in una fitta rete di affollati ostelli, canoniche essenziali e palestre attrezzate alla bell'e meglio, è ancora in fieri sul percorso italiano. Vero è che ci sono sempre più ostelli e strutture religiose che si aprono al numero crescente di camminatori, al punto che quasi in ogni tappa si trova almeno un convento o una casa per viandanti che mette a disposizione un letto, una doccia e una cucina, ma l'organizzazione è meno «organizzata» rispetto alla Spagna.
Del resto la grande maggioranza di chi cammina sulla Francigena non lo fa certo per motivi religiosi, ma piuttosto per provare un'esperienza tra lo sportivo, il personale e il ricreativo. Certo, sono nati anche quattro veri «ospitali» religiosi gestiti dalla Confraternita di S. Giacomo: uno a Nicorvo, in provincia di Pavia; due in Toscana, a Radicofani (dopo una delle tappe più lunghe, oltre 30 chilometri) e a Badia a Isola nei pressi di Monteriggioni, e un altro all'arrivo, a Roma. Si tratta di strutture che di norma accolgono solo chi è diretto a San Pietro e comunque ha la famosa credenziale che attesta lo stato di pellegrino diretto a un luogo di culto. Sono spuntate anche strutture laiche gestite interamente dagli hospedaleros, volontari che dopo aver fatto esperienza del Camino si fermano a ospitare: tra queste la Casa del pellegrino di Valpromaro in provincia di Lucca, aperta da una dozzina di anni.
E proprio la tratta Toscana è la più battuta dai camminatori. Sarà perché l'idea di addentrarsi nel paesaggio toscano tra vigneti e uliveti, borghi turriti e boschi millenari rappresenta nell'immaginario mondiale la quintessenza del viaggio in Italia. Oppure, più prosaicamente, sarà perché un terzo delle tappe, ben 16 dal passo della Cisa all'arrivo ad Acquapendente nel viterbese, attraversano il territorio del Granducato. Di certo anche perché qui la Regione ha oggettivamente creduto prima di altri nel turismo a piedi e ha investito prima che diventasse un mantra ministeriale. Lo ha fatto dedicandosi alla manutenzione dei sentieri, alla segnaletica (comunque puntuale su tutto il percorso), alla promozione e all'ospitalità. Del resto basta intraprendere una manciata di tappe per esempio una settimana tra Altopascio e Siena, per capire che cosa voglia dire percorrere un Cammino storico. Solo nella prima, quasi 30 chilometri fino a San Miniato, si attraversano le deserte colline delle Cerbaie, si passa il ponte mediceo di Cappiano, si attraversa un'antica palude percorrendo l'argine del canale di bonifica, l'Usciana, si passa nel centro storico di Fucecchio e, una volta superato l'Arno, si risale sulla collina della medievale San Miniato. E i giorni successivi tra colline e campi di girasole si toccano Gambassi con le sue tranquille terme, San Giminiano con le sue torri troppo turistiche, a Monteriggioni che sembra rimasta all'epoca in cui i pellegrini c'erano davvero.
Per diversi tratti si cammina ancora sul selciato dell'antica Francigena, dove si riconoscono le pietre grandi sono di epoca romana e i lastroni piccoli di epoca medievale. Gli stessi su cui passò Sigerico, nel 990 dopo Cristo.
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