Da una parte le indiscrezioni dell'intelligence norvegese sul dislocamento, per la prima volta dalla fine della guerra fredda, di munizionamenti nucleari nelle santabarbare della flotta russa del Baltico. Dall'altra le soffiate dei servizi segreti occidentali - riprese dal Financial Times, ma smentite dal Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin - secondo cui Mosca sarebbe pronta a dispiegare nei cieli ucraini quei cacciabombardieri e quegli elicotteri d'assalto usati fin qui con estrema parsimonia. Il tutto mentre la linea del fronte che dalle paludi di Kherson risale fino alle boscaglie di Kupiansk appare in lento, ma inesorabile movimento.
Ovviamente come tutte le notizie di questo conflitto anche quelle circolate nelle ultime 24 vanno maneggiate con estrema cura cercando discernere tra verità e disinformazione. Quindi bisogna partire dai pochi dati certi. Il più evidente è che la Russia ha concluso l'addestramento e lo schieramento dei trecentomila soldati mobilitati a settembre. Quindi può contare, grazie ai precedenti effettivi e alle unità reclutate nel Lugansk e nel Donetsk, su oltre 400mila uomini schierati su circa 800 chilometri di fronte. Da questo punto di vista i russi hanno un apparente vantaggio numerico. L'esercito ucraino falcidiato da perdite elevatissime non è in grado, nonostante i reclutamenti forzati e l'impiego di contractors, di contrapporgli una forza equivalente. I soldati di Kiev, addestrati e armati con standard occidentali, hanno però una maggior efficienza nella difesa delle proprie posizioni. E questo rappresenta un vantaggio.
I russi - oltre a dover attaccare prima del dispiegamento sul fronte opposto di carri armati e nuove armi a lunga gittata - devono misurarsi con le esigenze tattiche di un'avanzata in territorio nemico che richiede uomini e mezzi quattro volte superiori a quelli di chi difende. Quindi da questo punto di vista la situazione è strategicamente in parità. Non a caso Euvgeny Prigozhin, il capo della Wagner sempre assai attento a non rilasciare dichiarazioni avventate, parla di «almeno un anno e mezzo, due anni per conquistare l'intero Donbass». Stime confermate dalla lentezza con cui i suoi uomini, pur non lesinando le perdite, stringono il cerchio su Bakhmut. Quell'assedio iniziato ai primi di agosto è un po' il metro dei tempi di cui ha bisogno la macchina da guerra russa. Tempi resi ancora più lunghi dall'esigenza di suddividere e spezzettare la logistica per evitare che munizioni, carburanti e rifornimenti vengano individuati dai satelliti della Nato e inceneriti dai missili Himars.
Nei calcoli strategici del Cremlino il tempo non è, però, la componente più importante. La dottrina militare russa, basata sul massiccio uso dell'artiglieria, sui lenti spostamenti di truppe e sulla creazione di sacche in cui chiudere il nemico, resta quella della seconda guerra mondiale. In questa dimensione il modello di riferimento resta quello degli assedi di Pietroburgo e Stalingrado vinti nonostante i rovesci iniziali. Un modello sicuramente obsoleto se paragonato alle strategie e alle tattiche che la Nato sta trasferendo agli alleati ucraini. In tutto questo non va però dimenticato l'attenzione con cui i vertici russi guardano alla lezione «talebana» di una guerra combattuta senza calendario e senza orologio. Una lezione che li spinge a scommettere su una resilienza superiore alle capacità militari garantite a Kiev da decine di miliardi di aiuti occidentali.
In questa visione strategica va inserita - se confermata - la decisione di dotare di munizionamento nucleare la flotta del Baltico e di esibire una forza aerea impiegata, fin
qui, assai marginalmente. Decisioni che non puntano tanto ad un'immediata ed effettiva escalation quanto ad aumentare l'inquietudine dell'Occidente. E ad intaccare la sua capacità di garantire a Kiev un sostegno senza fine.
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