Milano - Sarà per colpa della laurea in filosofia, con tanto di tesi su Papa Gregorio Magno, che Pier Luigi Bersani non sembra aver molta dimestichezza con i grafici. Roba da cui stare alla larga, pericolosa - più che per la libertà di pensiero - per i pensieri in libertà. All'onorevole del Pd sarebbe infatti bastata una capatina su Yahoo Finance per rendersi subito conto che il titolo Mediaset, proprio quello che a suo dire sale in Borsa grazie al patto del Nazareno, ha lasciato sul terreno oltre il 33% da quando Matteo Renzi si è insediato a Palazzo Chigi. Era il febbraio scorso, e le azioni del Biscione quotavano attorno ai 4,3 euro; venerdì scorso valevano 2,9 euro. Un avvitamento sgradito agli azionisti, ma spiegato con sintesi inattaccabile da Silvio Berlusconi: «Il titolo soffre per il calo di pubblicità».
I numeri, di solito, non mentono. Capita, però, che qualcuno cerchi di piegarli alle proprie opinioni, come se si trattasse di una disputa da bar sull'efficacia del 4-3-3 da contrapporre al 3-5-2. Ecco così Bersani provare a far bere all'universo-mondo che grazie alla rinnovata intesa Cavaliere-Rottamatore sulle riforme istituzionali le azioni Mediaset sono riuscite a sgraffignare, la scorsa settimana, un +6% mentre l'intera Piazza Affari arrancava sotto il peso delle vendite. Peccato che lo scartamento non abbia nulla a che vedere con le faccende della politica. Per evitare topiche sarebbe bastata una formazione economico-finanziaria basica. Anzi, meglio: sarebbe bastato essere informati. Il recupero di Mediaset, infatti, si spiega facilmente in due modi. Il primo: il gruppo di Cologno Monzese ha chiuso i primi nove mesi 2014 con una strizzata ai costi superiore alle attese. Un aspetto, quello dei risparmi aziendali, verso il quale gli investitori sono ipersensibili. Non a caso, gli analisti di Mediobanca e quelli di JP Morgan si sono affrettati a rivedere i rispettivi target price (cioè il livello di prezzo cui il titolo, presumibilmente, dovrebbe allinearsi per riflettere il miglioramento) a 3,5 e a 5,40 euro.
Punto secondo: dopo mesi scanditi da continue indiscrezioni, Mediaset ha annunciato lo scorporo della sua pay tv Premium, col contestuale ingresso degli spagnoli di Telefonica (all'11,1%), dietro versamento di 100 milioni di euro. Inoltre, se verrà deciso di non quotare in Borsa la società, non è da escludere il futuro coinvolgimento di altri soci di peso, come per esempio Canal Plus e Al Jazeera. È uno scenario oggettivamente favorevole per il Biscione: la Borsa, semplicemente, ne ha preso atto. E ha ripreso a comprare.
Il sospetto, dunque, è che quella di Bersani sia stata l'ennesima intemerata anti Berlusconi. Da cui hanno preso le distanze, dopo il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, anche Matteo Orfini, presidente del Pd («Basta con l'ossessione berlusconiana»), e Debora Serracchiani, vicesegretaria del Pd («È stata una delle solite battute di Pier Luigi. Però è un errore»).
Difficile, del resto, che qualcuno voglia ingenuamente tornare all'antico vizio di sovrappesare l'influenza della politica italiana sull'andamento del mercato azionario. Ciò, semmai, poteva avere un senso quando governavano Andreotti e Craxi, e Piazza Affari oscillava a ogni spiffero uscito dal Palazzo. Oggi, non più: sono i grandi investitori i burattinai che tirano i fili dei mercati - spesso dietro l'input delle banche centrali - spostando miliardi in un nanosecondo; sono le indicazioni macroeconomiche a essere quasi sempre prevalenti sull'aspetto micro, quello che riguarda la singola impresa. È un aspetto della globalizzazione che Bersani non può ignorare.
Perché forse l'ex premier non guarda i grafici, forse non si informa, ma di cose economiche dovrebbe capirne, avendo amministrato la Regione Emilia Romagna tre anni, essendo stato, per due volte, ministro dell'Industria nonchè l'autore della famosa «lenzuolata» di liberalizzazioni.Se così non è, all'onorevole un sommesso consiglio: affidi i suoi risparmi a un gestore. Uno bravo, uno capace almeno di leggere i grafici.
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