Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che cosa rappresenta la grazia a Zaki?
«È la fine di un incubo giudiziario durato tre anni e mezzo. A Patrick nessuno restituirà quel tempo, fatto di una galera dura, un processo infinito, una condanna inaccettabile. Ma il giorno precedente è stato di angoscia, ora è un giorno di felicità».
Di chi è il merito di questo traguardo?
«Quando si ottengono questi risultati è perché tre elementi vanno nella stessa direzione: società civile, informazione e istituzioni politiche. E nelle ultime ventiquattrore tutto questo è successo».
Il governo italiano come si è mosso? La Meloni dice di non aver mai smesso di porre la questione.
«C'è stato un fatto, la condanna, che ha accelerato tutto. È possibile che si sia svolto un lavoro sotto traccia. Ma nell'anno e mezzo del processo non si è mosso un granché. Era nell'aria un provvedimento di grazia, ma è stata la reazione della società civile, dell'informazione e delle istituzioni a produrre quest'accelerazione decisiva».
Gli esecutivi lavorano meglio nel silenzio?
«Ognuno fa il lavoro che sa fare meglio. È normale che la diplomazia sia silenziosa e che le piazze si riempiano per stimolarla».
Vuoi ricordare per quale ragione Zaki è stato arrestato?
«Il capo d'accusa era diffusione di notizie false, per un articolo pubblicato a Beirut su un portale in lingua araba nel 2019».
Cosa scriveva Zaki?
«Raccontava cose che qualunque giornalista d'inchiesta e Amnesty conoscono bene: la persecuzione dei copti cristiani di cui la famiglia di Zaki fa parte».
Che significato ha dunque il processo?
«C'è un chiaro elemento di persecuzione politica, ma anche uno di persecuzione religiosa».
Poteva finire molto peggio?
«Sta finendo peggio per tanti altri. Le grazie sono provvedimenti soggettivi legati a fattori di influenza esterna, risolvono le questioni individuali, ma non il tema dei diritti umani. E non cancellano il verdetto. Nella sua fedina penale, Patrick resta condannato per un reato inesistente».
Com'è la situazione dei diritti umani in Egitto?
«Il 3 luglio è stato il decimo anno dal colpo di Stato. La situazione da allora è peggiorata. Assistiamo a torture, processi politici, sparizioni, condanne al carcere per gli avvocati per i diritti umani, mentre il giornalismo indipendente è impossibile da svolgere».
Il presidente egiziano Al Sisi ha voluto dare un segnale?
«Ha dovuto, perché le pressioni, anche interne, erano tante. Sui casi sconosciuti, non portati all'attenzione dell'opinione pubblica, quel tipo di governo non agisce. Le pressioni sono importanti».
C'è qualche altra questione urgente che il nostro governo deve ancora affrontare?
«Una questione aperta: riuscire a fare un processo in Italia agli imputati egiziani del processo Regeni».
I fronti caldi ormai sono tanti.
Che consigli dà all'esecutivo italiano per sbrogliare i nodi?«Di essere continuo nelle pressioni, di parlare sempre di diritti umani in ogni occasione e utilizzare le buone relazioni che sostiene di avere perché producano un cambiamento per i diritti umani».
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