«C'eravamo quasi arrivati, alla svolta che avrebbe cambiato tutto. Se fosse andata in porto la federazione giordano-palestinese cui lavorava Craxi oggi non saremmo a questo punto, davanti a una guerra devastante e a rischi di espansione del conflitto. Ma Shimon Peres fece marcia indietro a un passo dal traguardo».
L'ambasciatore Antonio Badini ha vissuto, come consigliere diplomatico del presidente del Consiglio Bettino Craxi, gli anni cruciali in cui una soluzione in Medio Oriente sembrava a portata di mano. E il fallimento di quella operazione gli torna drammaticamente alla memoria in questi mesi in cui una prospettiva di pace sembra tornata lontanissima.
Come andò quella volta, Badini?
«Parliamo degli anni dal 1983 al 1987, quando a Palazzo Chigi ero consigliere diplomatico del Presidente Craxi. La nostra diplomazia fungeva allora da punta avanzata per la stabilità del Mediterraneo, i nostri rapporti sia con il mondo arabo che con Israele erano assai intensi e questo faceva dell'Italia sicuramente il più attivo tra i Paesi occidentali. Craxi e Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, lavoravano alacremente al progetto della Confederazione tra Giordania e Palestina. Sul progetto c'erano grandi speranze ma anche forti opposizioni da entrambi i versanti, e anche il sequestro della nave Achille Lauro, nel 1985, fu concepito e realizzato da un gruppo di minoranza nell'Olp contrario alla Confederazione. Ma noi continuammo a lavorare in quella direzione, e solo il passo indietro all'ultimo momento di Simon Peres, primo ministro israeliano, impedì a Craxi e a Re Hussein di Giordania, di chiudere il cerchio».
Partita definitivamente chiusa?
«In realtà sempre con Craxi e Andreotti si riaprirono le prospettive di un accordo grazie alla visione lungimirante mostrata del generale israeliano Ezer Weizman. Ma Weizman divenne Presidente di Israele solo nel 1993, e allora Craxi e Andreotti non erano più alla guida del Governo. Peccato, perchè i due nostri uomini politici sarebbero stati di grande aiuto per il dopo Gaza. Un'altra prospettiva significativa si riaprì pochi anni dopo, nel 2000, quando il generale Ehud Barak come capo del governo israeliano propose a Arafat una ipotesi di pace del tutto interessante per i palestinesi. Purtroppo ad Arafat fu allora impedito di accettare la proposta dal Re saudita Fahd che si oppose alla concessione ad Israele della sovranità del sottosuolo della spianata del Tempio a Gerusalemme».
E adesso? È utopia ritornare alla stagione del dialogo?
«Non credo. Molto dipende da Israele. Vede, nessuno mette in dubbio le capacità di Israele di diventare il Paese-Regina del Mediterraneo, ma la comunità internazionale deve convincere Israele che la sua vera forza non sono le armi ma il consenso che otterrebbe dai suoi vicini, se anziché ampliare il suo territorio con la forza decidesse di ampliare la sua influenza nella regione grazie alla sua capacità di produrre lavoro e benessere. Le crescenti spese per la Difesa sottraggono a Tel Aviv preziose risorse per lo sviluppo e la modernizzazione del tessuto agricolo-industriale del Paese. Uno sviluppo che potrebbe essere allargato nella regione, tagliando l'erba sotto i piedi alle varie organizzazioni militari, compresa la stessa Hamas».
Intanto Israele ha reagito duramente alla decisione della Corte dell'Aja di aprire l'indagine chiesta dal Sudafrica. A venire contestata da Israele sembra l'autorevolezza, la piena legittimità della Corte penale internazionale.
«L'autorevolezza dei giudici dell'Aja è fuori discussione. La loro nomina segue percorsi diversi ma tutti fondati su verifiche attente delle loro qualità professionali e morali. È indubbio che le maggiori potenze possano avere maggiore influenza nel nominare i magistrati ma l'inevitabile lobbying dei governi non impedisce approfonditi riscontri sulla moralità e preparazione dei candidati».
Netanyau può andare avanti per la sua strada anche senza l'appoggio degli Stati Uniti?
«Israele agisce talvolta forzando i suggerimenti della Casa Bianca perché sa di poter contare se necessario sull'appoggio di una lobby potente sia in America che in Europa.
Ma una consultazione continua con i paesi occidentali è anche nell'interesse di Israele, altrimenti si va verso una espansione del conflitto dalle conseguenze imprevedibili: lo stiamo vedendo con le incursioni aeree angloamericane in risposta alle iniziative degli Houthi. Ma anche l'insistenza di Netanyahu di creare una zona cuscinetto, la cosiddetta buffer zone all'interno di Gaza riducendone il territorio a danno dei palestinesi, aumenta i rischi di regionalizzazione».
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