Come se non bastasse il Covid che torna a divampare a Pechino demolendo il troppo ottimistico mito della vittoria del regime cinese sull'invisibile «diabolico nemico», e senza dimenticare le gravissime tensioni che quello stesso regime ha in corso su Hong Kong e Taiwan, l'Asia ribolle e preoccupa anche per altre crisi politiche. La più seria è letteralmente scoppiata ieri nel primo pomeriggio (era mattina presto qui in Italia) al confine tra le due Coree: i militari di Seul di guardia sul lato sud della zona demilitarizzata che da 67 anni separa le due parti della stessa nazione sono trasaliti alle 14.49 nell'udire una potente detonazione, subito seguita dall'innalzarsi nel cielo di un'alta colonna di fumo. Il governo del Nord, dando seguito alle recenti minacce di Kim Yo-jong, la potente sorella del dittatore Kim Jong-un, aveva fatto esplodere l'edificio dell'Ufficio di collegamento intercoreano che era stato inaugurato a Kaesong, una città nordcoreana nei pressi del confine, nel settembre 2018.
«A breve, si potrebbe assistere alla tragica scena della completa distruzione dell'inutile ufficio di collegamento», aveva detto tre giorni fa la giovane donna che sembra progressivamente farsi largo nella stanza dei bottoni di Pyongyang bottoni, va ricordato, che sono anche in grado di innescare un'apocalisse nucleare. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in aveva cercato di alleggerire la situazione suggerendo di non chiudere la porta al dialogo, ma il quotidiano ufficiale del regime Rodong Sinmun gli aveva sbattuto in faccia quella stessa porta, preannunciando l'imminente arrivo di «un fulmine» sulle autorità di Seul. E ieri alle minacce sono seguiti i fatti, con un gesto che ha il significato non solo di una rappresaglia per la mai digerita provocazione sudcoreana di una decina di giorni fa, quando furono lanciati verso nord palloni aerostatici contenenti volantini di propaganda contro il regime, ma più ancora di un'anticipazione di future ulteriori azioni aggressive contro la Corea del Sud, ormai ufficialmente qualificata come un soggetto nemico.
Questi gesti cominciano a preoccupare non solo Seul, che continua a offrire disponibilità al dialogo ma assicura di esser pronta a usare se sarà inevitabile tutta la forza necessaria, ma anche i Paesi vicini della Corea, come la Cina, la Russia e il Giappone. Il timore di una concreta escalation lungo il 38° parallelo comincia a farsi reale, e in questo clima spicca il cospicuo silenzio del presidente americano Donald Trump, che pure tra il giugno del '18 e il febbraio del '19 aveva incontrato due volte Kim Jong-un alimentando speranze di disgelo che oggi paiono dissolte. Quanto ai motivi di questa aggressività nordcoreana, appare abbastanza evidente che di fronte allo stallo nucleare con Washington, Kim sia in cerca di un «caso» per uscirne, e che non potendo rischiare un'escalation direttamente con gli Stati Uniti abbia scelto di provocare Seul, cui rimprovera una politica troppo acquiescente con Trump, soprattutto a proposito delle sanzioni economiche americane che strangolano il suo regime.
La nuova crisi coreana certamente preoccupa la Cina, che però in queste ore è anche diretta protagonista di un preoccupante riaccendersi delle dispute di confine che fin dagli anni Cinquanta la contrappongono all'India. Da settimane la tensione sta salendo nella regione di alta montagna del Ladakh, adiacente al Tibet, dove i due Paesi rivali hanno fatto affluire decine di migliaia di militari. Ieri la situazione è degenerata, con scontri all'arma bianca si è parlato addirittura dell'uso di coltelli e pietre, senza armi da fuoco che avrebbero provocato venti morti e numerosi feriti da entrambe le parti.
Un colonnello dell'esercito indiano sarebbe tra le vittime e Pechino e New Delhi che secondo tradizione si rinfacciano le responsabilità sono all'opera per abbassare la tensione. Quanto mai necessario, stiamo anche qui parlando di potenze nucleari.
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