![Le tensioni con gli alleati mediorientali: rischio pantano di una guerra infinita](https://img.ilgcdn.com/sites/default/files/styles/xl/public/foto/2025/02/05/1738734799-aztthmkq0mzhzbpw1s2g-ansa.jpeg?_=1738734799)
La determinazione di Donald Trump nel sostenere il cosiddetto progetto di «Gaza Riviera» è, per molti versi, sconcertante. Nelle ultime 24 ore il presidente ha seccamente smentito quanti nella sua stessa amministrazione cercavano di mitigare il piano abbozzato durante la conferenza stampa di mercoledì con Benjamin Netanyahu. Dopo aver ribadito che «Gaza verrebbe consegnata agli Stati Uniti» Trump ha confermato il proposito di reinsediare due milioni di palestinesi «in comunità molto più sicure e belle, con case nuove e moderne nella regione». In questi propositi è difficile ravvisare dei reali vantaggi per l'America. Più facile è, invece, intravederne rischi e minacce provenienti non solo dalle fila dei suoi nemici, ma anche da quelle dei suoi alleati.
I primi «no» al piano Trump sono arrivati da Egitto e Giordania, due nazioni arabe e musulmane che oltre a intrattenere stretti rapporti con Washington sono state anche le prime a firmare la pace con Israele. Il regno hashemita è anche il custode della Spianata delle Moschee e della Moschea di Al Aqsa. Una responsabilità che lo rende responsabile del futuro dei territori palestinese, ma minaccia anche di comprometterne la stabilità. La Giordania, popolata già oggi da un 50 per cento di palestinesi, teme infatti di ripetere l'esperienza del 1970 quando fu costretta a mobilitare l'esercito per stroncare i tentativi di Arafat e dei suoi fedayn di impossessarsi del regno. Lo stesso dicasi per l'Egitto. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi, nemico giurato della Fratellanza Musulmana non ha la minima voglia di ritrovarsi in casa migliaia di combattenti di Hamas ovvero i militanti di un'organizzazione fondata e ispirata dalla stessa Fratellanza. Il «no» più pesante arriva però dal principe ereditario Mohammed Bin Salman. Nei piani di Trump la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita è la pietra miliare indispensabile per annullare l'influenza dell'Iran e raggiungere una pace basata sugli accordi di Abramo. Ma neppure lo spregiudicato Bin Salman potrà mai condividere degli accordi che non prevedano la nascita di uno stato palestinese. Rinunciarvi - da parte di un principe custode dei luoghi sacri dell'Islam - equivarrebbe infatti ad abdicare al ruolo di guida del mondo sunnita. Nel nome di un'improbabile «Gaza Riviera» Trump rischia, insomma, di giocarsi i principali alleati mediorientali. Per non parlare di tutti gli ostacoli e le minacce che si frappongono al suo piano.
Imporre o facilitare il trasferimento forzato di due milioni di palestinesi equivale a sottoscrivere una politica di deportazione e pulizia etnica espressamente vietata dalla Convenzione di Ginevra. Peggio dell'illegalità è, però, la pericolosità del progetto. Scegliendo di gestire Gaza, seppur impiegando non dei soldati, ma decine di migliaia di «contractor», Trump finirebbe con il ritrovarsi impantanato in una di quelle guerre senza fine che ha sempre giurato di volersi risparmiare.
Le scene della liberazione degli ostaggi ci hanno rammentato che quindici mesi di guerra non sono bastati a Israele - nonostante la profonda conoscenza di nemici ed obbiettivi - a cancellare presenza di Hamas. Un Hamas pronta a far rivivere a un'America, priva di alleati regionali, i momenti peggiori dell'occupazione irachena ed afghana.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.