Troppe tasse e pochi giovani volenterosi Così si estingue l'artigianato d'eccellenza

Il marchigiano e le sue scarpe fatte a mano, il ligure e le stufe: «È finita»

Serenella Bettin

Com'era bello quando le scarpe le potevi comprare e potevi pure guardarle fare. Era bello. Bellissimo. Guardavi le mani di questi artigiani, consumate dal cuoio e dal tempo, che battevano e scalpellavano su quella scarpa che lentamente prendeva forma. E più le guardavi, più vedevi quella scarpa crescere, formarsi, fabbricarsi. Guardavi quell'artigiano che addentava le punte dei chiodi, martello e scalpello in mano e energicamente li piantava sul cuoio.

Come Renzo Alessandrini, che ieri ha compiuto 71 anni e che fa scarpe da quando di anni ne aveva 11. Lui, marchigiano, di Montegranaro in provincia di Fermo, classe 1947, ha iniziato a fare scarpe nel 1958 in una piccola bottega di artigiani del suo paese. Una delle oltre 200 che popolavano la zona. Adesso sono una quindicina. E i problemi sono la fatica a trovare eredi e la assenza di competitività. E se lo sa Renzo, che di figli ne ha quattro, dai 46 ai 17 anni e che soltanto il terzo che di anni ne ha 26 ha deciso di prendere in mano l'azienda del padre e di creare la Calzoleria De Fumo, una piccola bottega artigiana che fa calzature da uomo su misura. Come ha sempre fatto il padre, che poi ingigantitosi ha esportato ovunque nel mondo: Libia, Romania, Giappone, Russia. Perché una volta anche gli artigiani esportavano. Una volta gli artigiani lavoravano. Adesso fanno la fame. Il figlio non ha deciso di fare come quei 28 mila laureati che ogni anno se ne vanno dall'Italia. No, il figlio è rimasto qui nel deserto dei sopravvissuti. «I figli non prendono le botteghe dei padri racconta Renzo al Giornale perché gli artigiani vengono tartassati su tutto, ci sono troppe spese, per una piccola azienda è una spesa enorme. E poi c'è crisi totale. Una volta c'era tanto lavoro, anche troppo, adesso no. Adesso qui di artigiani siamo rimasti in quindici». Qui nella culla delle scarpe fatte a mano. «C'è crisi spiega perché chi se le compra delle scarpe fatte a mano a 200, 300 euro? La gente per quei soldi vuole le firme e anche se sei competitivo come articolo, ma non è firmato non vale niente». Non capendo che a volte certe grandi firme sono fatte in serie battuta. «Negli anni Ottanta continua in ogni casa qui c'era una bottega o una fabbrica, adesso sono finiti quei tempi. Alcuni giovani non hanno nemmeno voglia di imparare. Io pretendo tanto sul lavoro, ma se arriva uno che pianta i chiodi al contrario».

Idem per Carlo Vitaloni, uno degli ultimi artigiani di Ancona che ha imparato il mestiere grazie al padre, classe 1925 e che ricorda ancora i suoi primi giorni di apprendistato. Ricordi ormai lontani, il comune di Montalto in questi giorni sta provando a rilanciare il centro storico con un bando per l'affidamento di cinque botteghe comunali. Ma la difficoltà è tramandare il mestiere alle nuove generazioni, perché i figli scappano e perché un artigiano, con spese del 70% dell'incasso, non può permettersi di prendere un giovane. Troppe spese. E ditte individuali, i cui macchinari non possono essere usati dai dipendenti.

O come quella coppia ligure che dal 2013 non sforna più stufe a legna, quelle belle, quelle ricamate su ceramica, ma sforna dolci tramite passaparola. Anche la loro è la storia di una bottega ammazzata dal Dio Denaro e dagli automi.

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