«È un esempio di come non trattare la storia, in particolare il movimento rivoluzionario russo». Pollice verso da intellettuali e storici russi per la serie su Leon Trotski prodotta da Mosca e lanciata da Netflix, accusata di dipingere il protagonista della rivoluzione bolscevica del 1917 come un mero assetato di potere, machiavellicamente astuto, pronto a tutto e senza scrupoli. La produzione, che era stata presentata in anteprima in Russia sul canale statale Channel One in occasione del centenario della rivoluzione, in seguito ha fatto il debutto su Netflix dove ha avuto un eco significativo, con gli occhi di quasi 140 milioni di abbonati (di cui 60 milioni sono americani) che l'hanno guardato e giudicato.
Secondo uno dei massimi studiosi di Trotski, Alexander Reznik, docente presso la Scuola Nazionale di economia russa, la serie di otto puntate travisa i fatti per costruire un luogo comune e «l'immagine semplicistica di un affamato di potere, cieco alle sofferenze della sua famiglia». Molto critico anche il nipote di Trotski, Esteban Volkov Bronstein, che attacca a testa bassa regista e sceneggiatori rei di aver creato un personaggio che è una falsificazione storica, lontano anni luce «dal marxista rivoluzionario, dall'uomo di un'intelligenza estrema, da un lavoratore molto cordiale e instancabile, incline ad educare i giovani e che ha generato una calda atmosfera attorno a lui».
Altra accusa diretta è quella di essere in scia del cosiddetto soft-power russo, che fa della pellicola l'ultimo sforzo dei media statali per vendere all'esterno la propria visione del mondo. Non a caso uno dei produttori è quel Konstantin Ernst, numero uno di Channel One, il principale canale di stato della Russia, che ha come linea editoriale il pieno appoggio ai desiderata del Cremlino. Contro il frutto cinematografico della serie si è coagulato un movimento di intellettuali e scrittori, animati da nomi di peso come Slavoj Zizek, Frederic Jameson e Isabelle Garo. Contestano la natura stessa della serie, l'intenzione niente affatto velata di effettuare un revisionismo stalinista, che trova sfogo in quell'odio politico che divenne un sentimento di odio razziale contro tutti gli ebrei. Il tutto condito da alcune insinuazioni contenute nei Protocolli di Sion. In molte scene infatti è sottolineata l'ebraicità di Trotski, che è tratteggiato come una specie di burattino nelle mani di un facoltoso ebreo, che vede nel rivoluzionario un metodo per sovvertire dall'esterno il sistema russo.
Una storia in cui trovano spazio anche pillole di fatti e situazioni legati a contingenze dell'oggi, dove il concetto di rivoluzione, intesa come trama foraggiata dall'esterno, è direttamente proporzionale a quello dei grandi cambiamenti e delle nuove derive ultraideologiche. Ma con in agguato il falso storico. Tra l'altro gli eredi di Trotski, che nel proprio esilio messicano avevano opposto un veto alla richiesta di effettuare le riprese nel museo della casa come previsto dai pieni originari dal produttore, hanno fatto trapelare tutta la propria irritazione per una serie di errori: come il fatto che l'assassino di Trotski, Ramon Mercader, fosse l'amante di Frida Kahlo.
Sul punto non hanno manifestato l'intenzione di fare causa ai produttori, ma quantomeno l'occasione di precisare con forza alcuni passaggi e le relative considerazioni sulle sorti del teorico marxista esiliato nel 1929: a loro parere «ucciso due volte». E la seconda sul grande schermo.
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