«Sai qual'è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t'implorano di salutare figli e nipotini». La dottoressa Francesca Cortellaro, primario del pronto soccorso dell'Ospedale San Carlo Borromeo ti guarda, comprende il tuo stupore. «Vedi il pronto soccorso? I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente lì può assistere e quando stanno per andarsene lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. È come se stessero annegando, ma con tutto il tempo di capirlo. L'ultimo è stato stanotte. Lei era una nonnina, voleva vedere la nipote. Ho tirato fuori il telefonino e gliel'ho chiamata in video. Si sono salutate. Poco dopo se n'è andata. Ormai ho un lungo elenco di video-chiamate. La chiamo lista dell'addio. Spero ci diano dei mini iPad, ne basterebbero tre o quattro, per non farli morire da soli».
La prima linea della guerra al Covid passa anche dai corridoi di questo palazzone grigio dall'aspetto vagamente sovietico disegnato dal Giò Ponti negli anni '50. Tra le sue mura i volti nascosti dalle mascherine, i saluti attenti alle reciproche distanze mescolati alla routine di una grande struttura regalano la sensazione di un film catastrofista anni '70. Poi ascolti i racconti di Francesca e dei suoi colleghi e realizzi che non è un film, che la catastrofe è già qui, che tutti questi volti coperti, tutte queste mani guantate lottano disperatamente per venirne fuori. Il professor Stefano Muttini, primario della rianimazione lo ammette senza giri di parole. «Ho l'impressione di esser finito in un tsunami che, per quanto lotti, non riuscirò mai a fermare. Il problema principale è inventarsi nuovi posti. La mia rianimazione aveva 8 letti. Poi sono riuscito ad aggiungerne 7, poi altri 8 e infine 16, arrivando a 31 posti. Domenica mattina ero felicissimo di aver trovato 6 nuovi posti, ma a mezzogiorno me li sono ritrovati tutti occupati. Per un attimo mi son sentito sconfitto, inadeguato». Creare nuovi spazi è l'assillo di tutti. Il professor Stefano Carugo, primario del reparto cuore-polmoni, mi fa strada tra sale coperte di polvere dove gli operai tirano cablaggi e allacciano terminali elettrici. «Questi sono 12 posti in più per i pazienti cardiopatici che hanno bisogno di terapia intensiva. La trasformazione è stata progettata venerdì, ma tra due giorni le stanze saranno pienamente operative. In tempi normali ci avremmo messo dei mesi, invece l'abbiamo fatto in 5 giorni». Ma questa corsa contro il tempo, alla ricerca di posti che non bastano mai è anche una maledizione di Sisifo. «Questo dover rincorrere l'emergenza pur con tutto l'aiuto che ci viene garantito crea uno stress emotivo non indifferente. Quando ho chiesto alla mia squadra chi se la sentisse di andare a lavorare nel reparto Covid ricorda il professor Mutti - si sono tutti offerti volontari. Ne sono orgoglioso, ma sono consapevole che per molti saranno esperienze assai dure. Alla fine tutta la nostra categoria si troverà profondamente provata per il periodo che stiamo affrontando».
Il primario ti accompagna in trincea, ti fa strada lungo il muro tirato su nell'ultima settimana. È la sottile linea rossa tra la rianimazione convenzionale e quella riservata ai nuovi dannati. Si muore in entrambe, ma in maniera diversa. Te lo raccontano le tute e gli scafandri in cui è imprigionato il personale affacciatosi sulla porta per salutare il proprio primario. Alzano il dito, sorridono da dietro le maschere, ma la vittoria è ancora lontana. Molto lontana. Il dottor Carlo Serini in quel reparto ha appena trascorso la notte. «Faccio il rianimatore da anni, ma ora è diverso. Stanotte mi sono avvicinato a un anziano.
Gli avevamo messo il casco per la respirazione. Lui si guardava intorno spaurito. Mi sono chinato e lui ha sussurrato Ma allora è vero? Sono grave?. Ho incrociato quel suo sguardo da cane bastonato e ho capito. Stavolta non avevo risposte».
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