Gli ucraini riconquistano l'autostrada di Lugansk. Kherson città fantasma

Avanzata strategica nell'Est. A Sud i russi lasciano e svuotano ospedali e aeroporto

Gli ucraini riconquistano l'autostrada di Lugansk. Kherson città fantasma

Piano ma senza sosta. Altro che resa: le forze armate ucraine continuano ad avanzare nel Sud del Paese nonostante gli sforzi bellici russi, sia in termini numerici che economici. Kiev ieri ha annunciato di avere sotto il suo controllo l'autostrada nella regione di Lugansk, snodo cruciale che permette di tagliare fuori ai russi l'accesso da Nord. Il capo dell'amministrazione militare dell'Oblast Serghei Gaidai, ha riferito che le truppe ucraine tengono sotto «controllo del fuoco» l'autostrada che collega le città di Svatove e Kreminna, il che significa un bombardamento calibrato in modo che non possa essere percorsa. Anche grazie a questa conquista, ora le forze armate ucraine stanno cercando di spingersi verso Est in direzione di Lugansk, regione che è stata quasi totalmente occupata dai russi. Un altro segnale dei progressi ucraini in un conflitto che non sta andando come al Cremlino avevano preventivato.

Al punto che nella regione di Kherson, l'evacuazione dei russi si fa sempre più imponente. Trasferiti anche moltissimi malati e feriti dagli ospedali dopo gli appelli dei giorni scorsi ai civili di lasciare la città, sulla scia di quanto fatto pure dalle autorità cittadine nominate da Mosca. «La cosiddetta evacuazione degli invasori dal territorio temporaneamente occupato della regione di Kherson, comprese le istituzioni mediche, continua», spiegano dallo stato maggiore delle forze armate ucraine, aggiungendo che dagli ospedali sono state anche rimosse le attrezzature e portate via le medicine. Non solo. Da Kherson sono state portate via anche le spoglie del principe e comandante del 18º secolo Grigory Potemkin, tra l'altro fondatore della città. I russi hanno prelevato le spoglie dell'eroe dalla tomba nella cattedrale perché si tratta di un simbolo diventato fondamentale nella narrazione nazionalista russa, soprattutto per quanto riguarda la conquista delle terre ucraine dal 1700 in poi. Una delle tante giustificazioni che lo stesso Putin accampa per l'invasione. Ma tutti questi atti, che a prima vista sanno di resa, nascondono un pericolo: in molti pensano che l'evacuazione sia solo una strategia per bombardare a tappeto la zona rendendo vana l'avanzata ucraina.

Mentre anche ieri gli allarmi per raid aerei sono risuonati in tutto il Paese, con l'invito alla popolazione di nascondersi nei rifugi, Kiev segna un altro successo. È stato infatti ucciso in uno scontro a fuoco il vice capo dello stato maggiore della compagnia paramilitare chiamata Gruppo Wagner, mercenari al servizio del Cremlino e al lavoro nel Sud dell'Ucraina. Sono loro che avrebbero arruolato malati di hiv ed epatite liberati dalle prigioni anche per scavare le trincee. Eppure, dalle parti di Mosca, tutto sembra andare secondo i piani. Almeno per quanto cercano di raccontare. Il ministro della Difesa Sergei Shoigu ha annunciato che la mobilitazione parziale ordinata nelle settimane scorse si è conclusa con 82mila soldati reclutati. Putin si è congratulato con il suo ministro spiegando che i problemi riscontrati nella prima fase della mobilitazione «erano probabilmente inevitabili, dato che a lungo non ci sono stati, nel nostro Paese, eventi come questo», ma a dire il vero i numeri non sembrano sufficienti per risultare decisivi. Tanto che il think tank americano Institute for the study of war, parla apertamente di narrazione di Mosca con i russi che «non stanno facendo significativi progressi». «Quando otterremo una vittoria, otterremo anche una vittoria per altre nazioni la cui libertà è potenzialmente a rischio», ha ribadito ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Da registrare invece un piccolo segnale sulla accidentatissima strada del disgelo.

Cinquanta soldati tra cui alcuni ufficiali e medici ucraini, oltre a due civili sono tornati a casa nell'ambito di un nuovo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina. Un segnale, certo, ma troppo debole in un contesto generale che resta di alta tensione per ipotizzare un percorso che porti, almeno, a una tregua.

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