Vallanzasca intravede la libertà "Consapevole dei propri errori"

L'ex boss della Comasina chiede la scarcerazione. Parere favorevole del direttore della prigione di Bollate. No del pg

Vallanzasca intravede la libertà "Consapevole dei propri errori"

Milano Non lo vogliono più neanche in carcere: perché quel vecchietto con i denti malconci e la pressione alta è ormai l'ombra del delinquente che faceva tremare mezza Italia, ammazzando a sangue freddo vittime innocenti, rapinando e sequestrando.

Arrivato al suo quarantacinquesimo anno di galera, Renato Vallanzasca forse sta finalmente liberandosi della catena più pesante: il clichè che - complici i media - si è costruito addosso, il capobanda spietato e guascone. Oggi, dice il direttore del suo carcere, Vallanzasca è un rottame che sta finalmente facendo i conti col suo passato. Tenerlo in galera per avere cercato di rubare due cesoie e una mutanda non avrebbe senso.

La relazione del direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi, è l'asso che Vallanzasca - 68 anni e una valanga di ergastoli da scontare - cala nell'ultima partita per respirare l'aria dei liberi. Sa che non è facile. Lo Stato si era fidato di lui, gli aveva già concesso la semilibertà nonostante il peso dei suoi crimini: e lui si era giocato tutto il 13 giugno 2014, andando a rubare sessantacinque euro di merce nel supermercato sotto casa della sua donna. Peccato veniale, o sintomo di una inesausta incapacità di stare alle regole? Lui aveva avanzato la tesi malferma di una trappola, di un complotto ai suoi danni. Il tribunale era stato indulgente: 10 mesi di condanna per rapina impropria. Ma l'effetto devastante era stata la revoca di tutti i benefici carcerari, conquistati dal bel Renè con anni di buona condotta. Era tornato all'ergastolo.

Ora ci riprova, attraverso il suo avvocato Davide Steccanella. Ieri dal carcere lo portano a Palazzo di giustizia, davanti ai giudici di sorveglianza. Chiede la liberazione condizionale, cioè di tornare libero a tutti gli effetti: pena estinta, ergastoli scontati, il passato dietro le spalle. Cita Antonio Gramsci, cui la liberazione venne concessa dal regime «senza alcuna abiura», solo per la sua buona condotta. Ed è un paragone ardito ma significativo, perché anche nel suo caso di una «abiura», ovvero di una autocritica, non c'è traccia esplicita.

Anche la relazione che il direttore di Bollate mette a disposizione del tribunale è tutta una ricerca di segnali indiretti, di sintomi che facciano supporre un travaglio interiore, un distacco dalla «identità grandiosa e trasgressiva» del Vallanzasca degli anni Ottanta.

Non ha mai chiesto perdono alle proprie vittime: ma lo avrebbe fatto «per non strumentalizzare questo tema, (sarebbe come usare le parti offese") tenendo dentro di sé quella che, con il tempo e dietro mentite spoglie, emergeva come consapevolezza dei suoi errori». Ha incontrato il figlio di un poliziotto ucciso in servizio: ma non era il figlio di una delle sue vittime, come gli agenti della Stradale assassinati al casello di Dalmine. E comunque si è limitato a «spiegare e sviluppare riflessioni significative riferite sia alla propria storia di vita, sia a un livello più astratto». Se si è pentito, insomma, se lo tiene per sé.

Saranno ora i giudici a decidere cosa si nasconda dentro l'uomo magro e curvo che ieri si sono trovati davanti, quali fantasmi agitino il detenuto che a Bollate si fa i fatti suoi («stile di vita penitenziario molto schivo e riservato, poco socializzato e senza più un ruolo

all'interno della comunità»). Il procuratore generale si oppone alla liberazione: «La direzione del carcere parla di un adeguato livello di ravvedimento, il codice imponeche il ravvedimento sia sicuro». E nel suo caso non lo è».

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