Oggi Matteo Renzi rompe il silenzio e parla dal Meeting di Rimini, appuntamento che segnerà la ripresa post-agostana.
Ad attenderlo con più ansia sono proprio i renziani del Pd, che sperano di decrittare, dalle parole del leader, quale percorso attenda governo e Pd nei prossimi mesi. Percorso da brivido: la riforma costituzionale che al Senato, allo stato, non ha i numeri; la legge di Stabilità di fine anno e l'avvio della manovra di alleggerimento fiscale su cui il premier scommette; poi la corsa verso le Amministrative. Con il Pd che rischia di schiantarsi ad ogni tappa. «Matteo ha davanti solo due opzioni», ragiona un dirigente molto vicino al premier, «o va avanti sulla riforma, col rischio di non avere i voti al Senato, e allora il percorso è: crisi, reincarico per fare la finanziaria e provare ad estendere l'Italicum al Senato e poi voto in primavera, magari insieme alle Amministrative. Oppure decide di rinviare la riforma e va avanti, concentrando tutto sul piano di tagli fiscali e allungando la legislatura». Col rischio, però, che la minoranza apra subito un altro fronte sulle tasse, come già lascia presagire il documento Speranza, che pone al governo una serie di condizioni «di sinistra» per votare le sue proposte. E un conto è che le riforme passino con maggioranze «spurie», un altro che voti da destra risultino necessari per la finanziaria.
Ieri uno scricchiolio per il governo è arrivato anche dal fronte destro, con Nunzia De Girolamo che molla Ncd: in vista delle Amministrative, il partito di Alfano è destinato a lacerarsi sulla propria collocazione: «È difficile credere che a Milano o a Napoli staranno con noi, e ricordiamoci che in Campania De Luca ha vinto anche grazie a De Mita. Se si rispostano che succede?». Ma l'epicentro della crisi resta dentro il Pd. Tanto che Massimo Cacciari, dalle colonne della renziana Unità , avverte: «La scissione già c'è, solo nel modo più spurio e improduttivo», perché esiste una «contrapposizione» ormai «antropologica» tra il leader e la vecchia sinistra ex Pci. Quindi, dice il filosofo ex sindaco, Renzi ne prenda atto e si faccia «il suo partito», perché «se vuole governare a lungo avrà bisogno di un partito vero e più strutturato».
Si riaffaccia lo spettro del famoso «partito della nazione», che negli scorsi giorni - e sempre, guarda caso, sull' Unità - è stato il direttore dell'Istituto Gramsci Beppe Vacca, certo non sospettabile di simpatie destrorse, a caldeggiare: «Trovo uno straordinario errore di grammatica il tentativo di eliminare dal tavolo del discorso la formula del partito della nazione», dice Vacca, perché «qualunque partito che aspiri a governare un Paese deve essere a suo modo un “partito della nazione”, cioè capace di coniugare nei modi più virtuosi i condizionamenti della vita politica nazionale e di quella internazionale».
Ed ecco sdoganata, da un insospettabile pulpito di sinistra, quell'idea di partito a vocazione maggioritaria e a cultura di governo, liberal ma che guarda al centro, che Renzi ha in testa da sempre. Solo che, quando dalla teoria si passa ai fatti, il premier deve fare i conti con ostacoli quasi insormontabili: i numeri a rischio in Parlamento e l'ossessione anti Renzi di un pezzo di Pd. Un pezzo che, con forte dispiacere del segretario, tutto vuole tranne che la scissione: finché esiste il Pd, aderente al Pse, lo spazio elettorale a sinistra (come sottolinea anche Vacca) sarà solo residuale.
«Quindi - dice un esponente renziano - la minoranza tutto vuole tranne che la scissione: non avrebbero né arte né parte né, ciò che gli sta più a cuore, posti. Il loro obiettivo è logorare Renzi, far collassare il suo governo e far saltare il Pd. Per poi ricostruire un partito di sinistra tutto loro».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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