So di espormi ad una slavina di insulti, perché parlare bene di Totò Cuffaro è decisamente impopolare, ma certi percorsi umani non devono passare sotto silenzio. Fino a poco tempo fa, conoscevamo l’ex governatore siciliano come quel personaggio spudorato e senza vergogne che offrì cannoli in consiglio per festeggiare una condanna a soli cinque anni, considerata grande vittoria processuale e politica.
Da quella volta, Totò ha interpretato alla perfezione il ruolo sublime del politico senza scrupoli e senza ritegni, che sguazza alla perfezione nell’Italiaetta assurda della furbizia e del malaffare, una specie di precursore-ispiratore del successivo Cetto Laqualunque di Albanese.
Poi, improvvisamente, il cambio di scena. Giorni fa, Totò ricompare nelle cronache e nella nostra considerazione in un modo tutto nuovo e tutto diverso. La condanna a sette anni, stavolta definitiva, per avere in qualche modo aiutato la mafia, lo avvia al carcere. Le telecamere dei tigì ce lo mostrano mentre prega assorto e penitente in una chiesa, all’alba, in attesa della sentenza. Quindi eccolo uscire di casa, con il colletto della camicia aperto, i capelli un poco disordinati, lo sguardo stranamente dimesso, eppure in qualche modo fiero. Quando gli mettono i microfoni sotto al naso, ci si aspetta l’ultimo sfoggio dell’antica tracotanza, invece le sue parole sono una lezione di misura e di sapienza: “Vado a scontare la pena che lo Stato mi ha inflitto, com’è giusto e doveroso”.
La sorpresa è enorme. Mentre lo portano a Rebibbia, in giro per il Paese crolla un’antica certezza popolare: non è vero che in galera non ci va più nessuno, in galera ci si va ancora. Non solo: ci vanno pure i politici. Totò aggiunge del suo: è un politico che ci va senza alzare la voce, senza accusare nessuno, senza candidarsi subito al premio Martirio&Persecuzione.
Inevitabilmente, la diffidenza – e troppa esperienza nel ramo - induce tutti quanti a dubitare.
Ma certo, è solo la scena madre dell’incarcerazione, ma tra due giorni è di nuovo fuori a fare danni, figuriamoci se si fa la galera davvero.
Sorpresa: se la fa davvero. Al contrario di Tanzi, che sta inventando di tutto per evitarla e presto chiederà pure le nostre scuse per il suo crac da 14 miliardi di euro, Totò accetta la sorte fino in fondo. Di più. Intende utilizzarla come occasione di redenzione e di riscatto. Recluso tra i detenuti comuni, ha chiesto di svolgere attività lavorative. Intanto, si è iscritto nuovamente all’università: già medico, studierà giurisprudenza.
La storia è questa: bella e strana. Merita comunque rispetto. Certo non cancella il reato, gravissimo, di aver in qualche modo favorito la mafia. Ma se è vero che ogni uomo è peccatore, Totò ha almeno deciso di lavare il proprio peccato in piena dignità. Come si legge nei romanzi di Dostoevskj, l’uomo colpevole passa attraverso le fasi dolorose del castigo, dell’espiazione e del pentimento.
All’uscita dal tunnel, può trovare il perdono. E ricominciare da capo, con una seconda vita migliore della prima. Già adesso, dopo poche mosse, Totò appare un lontanissimo parente del cialtrone arrogante che offriva cannoli in consiglio comunale. Il resto è una lunga e impervia salita, ma l’impressione è che possa superarla con una grande prova personale.
Mai avrei pensato, solo un mese fa, di star qui a scrivere in onore di Totò Cuffaro. Allora, l’avrei creduto impossibile.
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