Poliwood, il sudario dell’arte

Poliwood, il sudario dell’arte

Non è marmo. Né ferro, bronzo o qualsiasi altro materiale conosciuto alla scultura. Il suo nome, Poliwood, era destinato a restare noto solo agli addetti ai lavori, a quanti operano nell'industria, dall'edilizia alla nautica passando per l'automobilistica. Invece è arrivata lei, Maria Rosa Vendola, che in questo composto di propilene, polvere di legno e metallo ha intravisto una luce. Anzi, più di una: quelle che una volta uscito dal suo forno a 200° il Poliwood rivela prima di solidificarsi. Sì perché sono pochi gli istanti che separano questa materia dalla sua compiutezza. Istanti nei quali, da venticinque anni, l'artista opera in un'in\dustria a Torino, armata di guanti che isolano dal calore e di strumenti che lei stessa ha messo a punto. I risultati? Straordinari. Oggi sono ordinati nel volume «Maria Rosa Vendola, Poliwood 1985-2008» curato da Luciano Caprile, che segue la ricerca dell'artista - prima e unica ad aver intuito le potenzialità del materiale declinandole in un linguaggio altrettanto unico - fin dagli esordi. In occasione della presentazione del libro, dedicato a Franco Cesano inventore del Poliwood, il Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce ospita una selezione di opere al primo piano (fino all'11 ottobre 2009). Un percorso che evoca le tappe di un'avventura ancora oggi in corso dove sperimentazione, intuizione e poesia sono gli agenti di una trasmutazione inedita quanto quella del Poliwood a materia d'arte. Sono opere che serbano immediatezza e non finito nelle viscere ipertecnologiche. Sono, infatti, brevi gli istanti nei quali la materia può essere trattata. Nascono da studi e bozzetti che si dimenticano nel farsi azione e orizzonte visivo, le opere della Vendola: distillati di equilibrio ed evanescenza. Ora il Poliwood si posa su frammenti di corpi - sorta di sudario postmoderno - che paiono emergere dai luoghi della trascendenza. Adesso si stringe, quasi tessuto, come in un pugno, per poi aprirsi a ventaglio lasciando che le sue pieghe accarezzino le forme di un Cristo, di una ballerina o, ancora, di una fiamma olimpica.

La luce, che gioca a rimpiattino tra i pieni e i vuoti di questi strappi, ha consistenza immobile quanto la materia, o si lascia sedurre dalla pittura di eco informale, che torna come amore mai rinnegato unendosi al Poliwood in una saldatura a ultrasuoni. Il tutto in un attimo: quello del rapimento, dell'estasi che tecnologia ma soprattutto intuito ha permesso al Poliwood di essere carne plastica, permanenza.

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